La Sinistra Italiana da Imola a Livorno

Immagine - Momenti del II Congresso dell'Internazionale Comunista

La rivoluzione russa, parto primogenito e unico della guerra, pone ai socialisti d'Europa una serie di gravissimi problemi, le cui risoluzioni, anche se affrontate su di un piano teorico, furono il motivo propulsore che spezzerà, sotto la guida del bolscevismo, il movimento operaio in due tronconi. Da una parte i riformisti, più o meno camuffati di massimalismo e di rivoluzionarismo parolaio, dall'altra i rivoluzionari rimasti fedeli o maturati dagli eventi alle “palingenetiche tesi” dello scontro frontale e della dittatura del proletariato.

Ancora nella prima fase della rivoluzione (febbraio) le questioni che il movimento socialista doveva risolvere, cercando di non confondersi col coro esultante delle borghesie dell'Europa occidentale, riguardavano tre ordini di fattori:

  1. analisi delle prospettive della rivoluzione di febbraio;
  2. tipo di comportamento del governo provvisorio nei confronti della guerra;
  3. trasformazione della rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione proletaria.

La socialdemocrazia tedesca, all'avanguardia sul terreno del riformismo e sollecita alle analisi degli accadimenti internazionali, non ebbe dubbi.

Nella “Neue Zeit”, sotto la direzione di Kautsky, mentre si sprecano elogi ai compagni russi per la grandiosa vittoria, si mette altresì in risalto che la sconfitta del militarismo zarista porta soprattutto la firma “delle baionette tedesche in mani tedesche”. In altri termini la socialdemocrazia tedesca non solo giustificava l'imperialismo di casa ma lo blasonava come determinante nella lotta per l'emancipazione dei popoli oppressi. Lo stesso direttore, rinnegato da tempo ma non ancora bollato come tale da Lenin, nello specificare meglio quale dovesse essere l'atteggiamento dei socialisti nei confronti degli eventi russi, risolse organicamente tutti e tre i problemi.

Per l'ex marxista Kautsky, date le condizioni di arretratezza economica in cui versava la Russia ed in linea con i socialdemocratici russi, non esistevano le condizioni obiettive per una rivoluzione proletaria. Ne conseguiva che l'unica rivoluzione possibile era quella democratico-borghese e che il proletariato russo doveva appoggiare la propria borghesia ed il suo governo contro il dispotismo senza mettere sul piano della forza il problema della lotta di classe e quindi del socialismo.

L'analisi giungeva alla conclusione che a quello stadio della rivoluzione i socialisti russi (menscevichi e socialisti rivoluzionari) avrebbero dovuto potenziare la loro situazione interna attraverso un gioco di alleanze con gli strati del liberalismo borghese, politica fatta propria dai vari Axelrod, Tseretelli e Dan, che vedevano nelle tattiche dei bolscevichi e nella dittatura del proletariato un avventurismo di sinistra che non sarebbe approdato a niente e che avrebbe messo in forse gli stessi risultati raggiunti dalla rivoluzione di febbraio.

Il maggiore teorico della socialdemocrazia internazionale fondava la sua analisi esclusivamente sull'arretrato grado di sviluppo dell'economia e sull'aspetto dispotico dell'amministrazione politica dello zarismo senza considerare la dimensione mondiale della guerra imperialista e le sue conseguenze sugli ulteriori sviluppi della rivoluzione internazionale. La rivoluzione doveva essere borghese e solo borghese, nella misura in cui l'unico nemico della classe era lo zarismo e la realtà economica che rappresentava.

In Kautsky, la cui concezione internazionalista proletaria si era da tempo ridimensionata entro i confini nazionali, emergeva la speranza non del tutto infondata ai suoi occhi, che il governo “socialista” di Kerensky, una volta consolidatosi. avrebbe potuto smettere i panni del nemico per arrivare ad accordi o transazioni con la Germania, chiudendo così un dispendioso fronte alle Potenze Centrali.

Le ripercussioni in Italia

Il seme dell'analisi kautskiana trovò facili terreni su cui prosperare. Per l'orticello italiano, già di per sé fecondo a simili culture, non ci fu bisogno di particolari semenze. Eventualmente l'esempio della socialdemocrazia tedesca funse da qualificato stimolante per tutti coloro che pur essendo pervenuti sul medesimo terreno politico, avevano ancora tare di reticenza sul piano delle scelte dichiarate.

Il primo commento ufficiale sulla rivoluzione di febbraio da parte dei riformisti apparve nell'editoriale di "Critica sociale" nel marzo del 1917. L'impostazione dell'articolo è anticipatrice, anche se per il momento in modo del tutto informale e disarticolato, dell'atteggiamento che il riformismo andrà assumendo nei confronti del processo di sviluppo dell'ottobre bolscevico e più tardi delle vicende italiane.

Tralasciando la prima parte dove si elevava “l'inno della esultanza socialista per questo trionfo proletario delle libertà borghesi” più avanti si legge :

Devesi credere che il proletariato saprà ottenere tutto ciò che gli è indispensabile per il pieno sviluppo delle sue organizzazioni e della lotta specifica per il suo miglioramento e per il suo ideale ultimo, il socialismo.

Non è certo da queste poche righe che è possibile riconoscere una compiuta analisi di ciò che le vicende russe andavano offrendo, cionondimeno l'abbozzo dell'impostazione riformista ne esce ben tratteggiato. Nelle aspettative turatiane il governo provvisorio di Kerensky poteva dare sufficienti garanzie per uno spazio politico entro il quale il proletariato potesse effettuare la sua scalata al socialismo.

La caduta dello zarismo e con esso degli Ottusi sistemi di un apparato amministrativo di tipo poliziesco non solo rappresentavano una conquista democratica, una rivincita del popolo russo da secoli di oppressione ma era la condizione più idonea allo sviluppo delle istituzioni borghesi tradizionali, uniche armi storicamente valide, per un proletariato che doveva crearsi, giorno per giorno, gradino per gradino, il suo socialismo casalingo.

Più avanti, nell'indicare come la nuova situazione creatasi potesse favorire questo processo di socializzazione:

Non c'è che da persistere e lavorare, un poco lutti i giorni, instancabilmente, con la stampa, con l'associazione, il suffragio... Le vittorie fioriscono come le primavere.

Se per Kautsky il febbraio russo fu l'occasione per giustificare fino in fondo la sua abiura dal marxismo velata solo dall'ultimo sforzo di rimanervici abbarbicato, dichiarandosi ancora solidale con un'impostazione che non poteva però trovare riscontro in quella situazione specifica, per Turati e per i collaboratori di "Critica sociale" non ci fu nemmeno questo aspetto.

Non si rinunciava alla dittatura del proletariato per la Costituente, perché la prima ancora immatura rispetto alla situazione oggettiva, ma si predicava la seconda con la “fioritura primaverile delle suddette vittorie” perché unica via verso il socialismo.

Su questo piano il riformismo italiano poteva vendere sementi a chiunque.

Successivamente, in una seduta parlamentare del 23 marzo 1917 (1) Turati affronta il problema della guerra:

Noi non possiamo tacere tutta la nostra esultanza, non possiamo tacere che se mai le finalità conseguite dalla guerra, a dispetto di coloro che la vollero e la provocarono, potessero mai riabilitare le nefandità orrende della orrenda guerra; certo la liberazione della gente slava recherà a quella riabilitazione elementi pia poderosi... La rivoluzione russa sarà anche a breve scadenza la liberazione della Germania, che vuol dire degli imperi "centrali" come inizio della "liberazione del mondo".

Come nota giustamente Cortesi (2):

Il Turati dava così per scontata la continuazione e l'intensificazione della guerra da parte della Russia e ne segnalava i benefici, collocandosi quindi a fianco degli interventisti democratici.

Anche su questo piano, sebbene per interessi differenti le linee politiche di Kautsky e Turati finivano per convergere.

Nello stesso mese usciranno sull'Avanti! una serie di articoli sulla rivoluzione a firma Junior, pseudonimo del collaboratore russo Vasilij Vasilevic Suchomlin. Pur mantenendosi sulle generali e in posizione di attesa di ulteriori sviluppi si nota una diversa intonazione:

"Al potere sono arrivati i rappresentanti della borghesia colta [e il nuovo governo] non può essere certo considerato come la genuina espressione delle masse pietrogradesi. [Lo stesso] carattere spiccatamente di sinistra del Ministero, soprattutto la presenza in esso del laburista Kerensky, che ha sempre votato contro i crediti di guerra, dimostrano che la preoccupazione principale fu di arrestare il movimento facendo subito il maximum di concessioni politiche. [Nessuna] unanimità in Russia, dove proprio ora comincia un'era di lotte [dato che] senza resistenza i nobili russi non abbandoneranno i loro privilegi e sopraffino le loro terre." (2)

L'impostazione di Junior, benché in attesa di più sostanziali verifiche, esprime lo sforzo di intravedere degli sbocchi possibili alla lotta di classe, sforzo risultato sempre estraneo all'indagine turatiana.

La collaborazione di Suchamlin diede il taglio, oltre che il via, alla posizione dell'Avanti!.

Lo stesso Serrati, in un “fondo” (3) del 19 marzo, estremizzando l'impostazione del collaboratore russo, intese prendere le distanze dai riformisti, considerando chiusa l'esperienza rivoluzionaria, con gli operai “sconfitti” e con la guerra che verrà portata “fino in fondo” e conclude pessimisticamente nel vedere come unico e precario risultato di febbraio “uno sbrendolo di costituzione politica”.

Con il proseguire degli avvenimenti, soprattutto da marzo a novembre, sia con Junior che con lo stesso Serrati, l'Avanti! andò assumendo posizioni a volte contradditorie che diederoil segno della difficoltà e dei limiti di orientamento che esistevano nel partito.

Dalla prima, quasi spontanea posizione di denuncia del governo borghese illuminato di L'Vov, Miljukov, Gutzkov, Kerenskj, inteso come governo precario, oltre che provvisorio e comunque come espressione delle forze borghesi costituzionalmente democratiche dalle quali il proletariato russo non doveva avere la debolezza di attendersi concessioni di sorta, si passò alla seconda, di appoggio al “nuovo governo”, L'Vov-Kerensky-Cernov. L'entrata in scena di Cernov, socialista rivoluzionario, con il suo programma agrario, sembrava aver spostato l'ago della bilancia. Junior vedeva così verificata l'ipotesi di un primo agglomerato delle sinistre rivoluzionarie al governo che avrebbero finito per trascinare sul piano di una maggiore radicalizzazione politica Kerensky e il suo governo.

Noi non abbiamo dubitato neanche un momento del vero significato della costituzione del ministero di coalizione e abbiamo tentato di mettere in evidenza il suo carattere rivoluzionario... Sbagliano grosso dunque quelli che dal fatto stesso della partecipazione volevano concludere alla necessaria abdicazione e al susseguente addomesticamento.

Paradossalmente con la coalizione Kerensky-Cernov non solo viene rivalutata la figura di Kerensky, fino a poco tempo prima considerato come un “ex-socialista, molto ex”, ma la stessa funzione dello stato provvisorio che diventa, con l'ingresso dei socialisti rivoluzionari, un governo che il proletariato deve difendere ed appoggiare.

La metamorfosi di Junior e dell'Avanti! rappresentava non un'accidentale svista nello sforzo di dare organicità all'evolversi repentino delle vicende politiche, bensì era la misura di una capacità analitica che non poteva andare oltre i limiti di un riformismo radicale.

In Junior non ci fu mai l'alternativa: Costituente/dittatura proletaria, ma la lotta dei rivoluzionari avrebbe dovuto essere all'interno della Costituente; la partita politica che le condizioni obiettive imponevano, doveva essere giocata dal proletariato e dalla borghesia entro il quadro del ruolo e delle funzioni del nuovo governo che nonostante l'inserimento di Cernov, continuava ad essere borghese.

Serrati, dopo la sua prima presa di posizione, prese parte saltuariamente al dibattito in corso, il clima di ricerca e di confusione che regnavano all'interno del partito lo coinvolsero in prima persona, il che non gli impedì comunque di commentare gli aspetti più incisivi della lotta civile con dichiarazioni incerte che lo spinsero a solidarizzare con le agitazioni promosse dai bolscevichi contro il governo (articolo del 26 giugno) e a definire positiva l'opera del governo, esaltando l'impegno “di purificazione e di organizzazione della vita pubblica russa”.

Questo clima di incertezza non durò a lungo: le vicende russe, col precipitare della situazione politica e sotto la spinta della radicalizzazione delle masse continuarono a condizionare "l'atteggiamento" dei socialisti italiani.

Il dissidio apertosi dopo le "tesi di Aprile" tra menscevichi e bolscevichi, il rimpasto governativo ed infine il tentativo reazionario di Kornilov fecero intravedere, per la prima volta con chiarezza, la linea di demarcazione tra riformismo e internazionalismo rivoluzionario.

Il motivo occasionale che impresse all'Avanti! ed in modo particolare al suo direttore una terza impostazione, fu la corrispondenza da Pietrogrado della Balabanoff, giunta in Russia dall'Italia pochi giorni dopo la costituzione del gabinetto di coalizione.

Come vedremo, le posizioni della rivoluzionaria russo-italiana fecero sentire distanti gli abbozzi di analisi di Junior e soprattutto furono il primo organico veicolo di trasmissione delle tesi leniniste, di cui Serrati crederà di essere il fedele interprete.

La Balabanoff inizia col descrivere lo stato di disorientamento politico generale che sembrava caratterizzare la Russia di quei giorni.

Nonostante ciò, una cosa le sembrò essere immediatamente verificabile:

il tradimento della borghesia che dopo aver "goduto della vittoria popolare sullo zarismo", perché questo ostacolava il passaggio della Russia ad un assetto economico moderno, passaggio imposto dagli stessi interessi e bisogni della borghesia "ora minacciata dai bolscevichi" sempre più palesemente invoca la reazione.

Quindi - concludeva - la partecipazione dei socialisti al potere è stata non solo un grande errore, ma una vera e propria disgrazia per il partito socialista, per i partiti socialisti di tutti i paesi.

L'analisi critica della Balabanoff strapazzava, in un sol colpo, le posizioni possibiliste di Junior e l'atteggiamento che in base a queste l'Avanti! aveva sostenuto .

La polemica fu pressoché inevitabile: dopo gli articoli della Balabanoff "Critica sociale" partì all'attacco. Claudio Treves fu esplicito nel difendere il riformismo:

... il governo provvisorio ha da essere riconosciuto, sostenuto, entusiasticamente appoggiato da tutta l'Internazionale. Il perchè (sic!) a noi sembrino gravemente improvvide le fatue effusioni di taluni rivoluzionari nostri verso gli estremisti che a Pietrogrado rappresentano l'opposizione. La più rapida pace in Europa non si chiama Lenin, ma Kerensky... !

Treves non fa che ricalcare le prime posizioni di Turati sulla rivoluzione di febbraio, con l'importante aggiunta del più assoluto rifiuto della strategia leninista, definita "utopista" e pericolosa per i destini del proletariato europeo. È in questo distinguo che va inquadrato lo scontro tra riformisti e rivoluzionari, scontro che in quel momento andava delineandosi ma che, proprio perchè non ancora sufficientemente decantato, era combattuto a colpi di articoli sulle ali di una polemica confusa.

Va detto che su questo piano l'ala riformista si presentava più omogenea e con idee più chiare. Per Treves e Turati la rivoluzione russa aveva portato all'unico risultato possibile.

Il governo di Kerensky era già di per sé stesso una garanzia, senza che si aspettassero nuove svolte chiarificatorie. Per la sinistra, per coloro che, al di là del gioco delle correnti cercavano di scorgere una soluzione alternativa, il terreno andava facendosi più pesante. L'esempio di Serrati e come lui di molti altri, che oscillarono tra una posizione e l'altra, senza riuscire a diradare le nebbie della confusione politica, dà il segno di quanto la sinistra rivoluzionaria fosse confusa sul piano ideologico e di come fu colta impreparata, salvo pochissime eccezioni, dagli eventi russi prima dell'ottobre bolscevico.

Era quindi inevitabile che nella polemica con i riformisti, uomini come Serrati non potessero opporre che il "sentimento" personale e dichiarazioni di principio, senza riuscire a contrapporre alla logica riformista i capisaldi della dottrina rivoluzionaria.

Agli attacchi di Treves, Kuliscioff e compagni, il direttore dell'Avanti! non trovò di meglio che rinchiudersi in una dichiarazione di aperta solidarietà con i Bolscevichi e con Lenin che, in quanto capo riconosciuto delle "utopie" rivoluzionarie fu il capro espiatorio delle arringhe riformiste.

"Sì, noi siamo compagni ed anche amici di Lenin e di Trotsky. Siamo stati con loro a Zimmerwald e a Kiental, abbiamo avuto con loro e con altri del loro gruppo, come lo Zinoviev, qualche corrispondenza; quando Leone Trotsky fu espulso dalla Spagna, dalla Francia e dagli Stati Uniti, da tutti cacciato come un cane rognoso, noi ebbimo con lui rapporti scritti che stanno a significare come, al di sopra di ogni frontiera e contro tutte le persecuzioni, i socialisti pratichino la solidarietà. Ma a parte le relazioni personali noi condividiamo anche le idee, i metodi di Lenin.
Al Convegno di Kienthal, mentre i nostri compagni deputati Modigliani, Dugoni, Morgari, Muratti e Prampolini facevano le proprie riserve circa la portata di alcune dichiarazioni o tesi di principio presentate al Convegno da una speciale commissione noi, che di quella commissione insieme a Lenin facevano parte, dichiarammo la nostra incondizionata adesione a quelle tesi." (4)

La sua “adesione al leninismo”, o meglio quello che lui pensava essere leninismo, fu più un atto di simpatia politica, dettato dal rifiuto del riformismo conseguente, che da una scelta analiticamente valutata. Per Serrati, come per il massi-malismo in generale, e i fatti posteriori lo dimostreranno, la scelta tra Turati e Lenin non fu operata, in questi frangenti, sul terreno di classe, ma su quello più friabile del sentimento. Ne è un esempio la critica che Serrati mosse alla lettera-documento di Martov sul “carattere utopista del movimento leninista” (5) dove la polemica finisce per toccare gli aspetti contingenti del problema, senza opporsi validamente alla liquidazione totale che Martov fa del leninismo. Si deve tenere conto di questa "interpretazione" serratiana del leninismo per meglio comprendere il comportamento dei massimalisti nel successivo evolversi delle situazioni italiane.

In seguito la rivoluzione d'ottobre fu il colpo risolutivo, con il quale il processo di decantazione politica fu enormemente accelerato. Mentre la destra riformista coglieva nel nuovo episodio l'occasione per arroccarsi ancora più strettamente attorno alle concezioni di democrazia progressiva, fuggendo da ogni esperienza dittatoriale, anche se proletaria, il massimalismo confusionario ebbe la prontezza di aderire, ma ancora una volta in modo acritico e scarsamente analitico.

Ebbe sin da allora ragione Bordiga nel vedere in questa diatriba la necessità di superare un "tipo" nuovo di socialismo che da qualunque parte lo si volesse guardare mostrava visibili i segni della sua crisi:

"Si comincia da ogni parte a riconoscere che le grandi divergenze e discussioni tra le frazioni in cui si divide il Partito Socialista non erano oziosi dibattiti dottrinali. Anche coloro che sono stati sempre estranei alle discussioni fra le tendenze del socialismo, accogliendole con un sorriso di imbecille compatimento, sono allarmati dal possibile arieggiamelo delle maggioranze e minoranze socialiste, in questo o quel paese; s'incomodano a parteggiare per l'una o l'altra fazione.
C'è una gamma troppo estesa di opinioni nel seno degli organismi tenuti insieme da questo semplice aggettivo "socialista", perchè si possa soltanto tacere la necessità di una revisione teorica e tattica del programmi e dei metodi, seguita da immutabili e definite separazioni. e questo sarà, anzi, è fino da ora, il compito poderoso della nuova generazione socialista, meno inceppata dalla pesante eredità degli errori passati." (6)

Sulla rivoluzione d'ottobre i riformisti, forse perchè troppo preoccupati dall'andamento disastroso delle vicende belliche casalinghe, tardarono a farsi sentire. Ma oramai il "grosso" era stato detto e dopo l'acquisizione della lettera documento di Martov che ricalca le posizioni di Kautsky sulla impossibilità di instaurare un regime collettivistico su di un tessuto economico per molti versi "precapitalistico" ogni aggiunta analitica da parte del riformismo italiano era considerata all'interno della corrente di "Critica sociale" superfluo. Sull'ultimo e più importante episodio della rivoluzione russa il menscevismo internazionale non aveva più nulla da dire che non fosse già stato compiutamente analizzato.

Sotto questa luce va inquadrata la postilla alla lettera di Martov, redatta con un certo ritardo da Treves (7), dove il vicedirettore di "Critica Sociale" si preoccupa di tamponare la possibile adesione dei "volontaristici" giovani socialisti alla tesi leninista.

Questi giovani, che avevano in Bordiga il loro leader, furono gli unici, in tanto guazzabuglio politico, ad assumere nei confronti della rivoluzione una posizione corretta. Il futuro ispiratore della scissione di Livorno seppe vedere nella strategia leninista ciò che i riformisti negavano e ciò che Serrati aveva definito “più che una dottrina, soltanto un metodo, anzi appena una forma di lotta del proletariato internazionale”, cioè l'unica e necessaria via attraverso la quale é possibile instaurare una società socialista. ln un articolo del 7 Novembre a seguito di una panoramica sugli avvenimenti dell'Ottobre, così Bordiga conclude:

Il proletariato russo ha intanto compreso quali pericoli contenga la politica borghese e riformista di Kerensky, e i socialisti massimalisti guadagnano terreno. Il Governo provvisorio si trova in continua crisi fra i tentativi controrivoluzionari di Kornilov e la propaganda dei "leninisti" per la presa del potere. Finalmente il Governo é rovesciato, ed il Soviet in cui gli estremisti sono divenuti l'enorme maggioranza assume il potere. Mentre scriviamo, fra la ridda di notizie contraddittorie e tendenziose che giungono a noi, si comprende che i socialisti lavorano all'attuazione di un programma dalle linee semplici e grandiose - quello stesso del Manifesto dei comunisti - cioè la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di produzione, mentre procedono logicamente e conseguentemente a liquidare la guerra.

Il dopo guerra

La fine della guerra pose seri problemi al processo di ripresa dell' economia capitalistica italiana. innanzitutto per le forze borghesi reduci da una "vittoria" di Pirro, risultava evidente che il processo di ricostruzione dell'economia ed i relativi piani tecnici per attuarlo, avrebbero avuto un senso solo a condizione che il più grosso partito di opposizione, il P.S.I. si comportasse in maniera "responsabile", senza gravare eccessivamente con il suo peso su di una struttura precaria che altrimenti sarebbe finita col cedere di schianto.

Il P.S.I. cresciuto enormemente nel primo anno postbellico, 23.765 iscritti nel 1918, 87.589 nel 1919, si apprestava ad inserirsi nella nuova fase, trascinandosi dietro le polemiche della guerra, con le rispettive correnti pronte a giocare fino in fondo il ruolo che si erano scelte.

Per i riformisti, usciti sconfitti dalle ultime battaglie congressuali, si trattava di riproporre un piano di riforme che fosse al passo con i nuovi tempi e tenesse conto, nelle sue scelte, della politica wilsoniana, politica già fatta propria dalla CGL.

Turati si mostrava preoccupato, e non a torto, che l'influenza della rivoluzione di Ottobre, con le prospettive rivoluzionarie che implicava, oltre all'innegabile fascino, potesse accelerare ulteriormente quel processo di decantazione politica che da mille segni vedeva già in atto nel partito.

A suo giudizio questo "contagio" rivoluzionario, se non arginato in tempo, avrebbe sortito l'effetto di trascinare il proletariato in una avventura senza sbocchi, rovinando il paziente lavoro di due generazioni di riformisti. Meglio quindi prepararsi al peggio, anche alla scissione, pur di non perdere l'occasione di usufruire al massimo dell'opportunità che la guerra aveva creato (8). Zibordi funse da solida spalla, ribadendo il concetto che il socialismo non é questione di rivoluzione né di dittatura, ma il frutto di lente conquiste che spetta al partito responsabile cogliere, sfruttando le situazioni più propizie:

"La vera rivoluzione o importanti realizzazioni socialiste sono possibili dove c'é della preparazione, dove vi sono delle forze, dove il proletariato, direttamente o attraverso i pubblici poteri che siano in sua mano, abbia creato degli organi, degli istituti nuovi, si sia abilitato a funzioni direttive della società." (9)

La sinistra premeva perché il partito non cascasse nella ragnatela degli interessi borghesi nazionali, facendo di una rinnovata tattica riformista il presupposto politico di un nuovo ciclo di accumulazione. In questo clima la nuova occasione di un dibattito scontro fu fornita dallo scottante tema della costituente. Non é importante riandare alle discussioni che precedettero il rifiuto di inserire nella piattaforma politico-rivendicativa del partito questo "problema nazionale", pur tuttavia é in questa fase che le correnti del P.S.I. si diedero la definitiva fisionomia ideologico politica che le porterà senza grossi mutamenti di fondo alla scissione di Livorno.

Mentre la destra riformista non fece che riproporre in termini più organici le posizioni di sempre per bocca del solito Turati:

"Le riforme che costituiscono la grande e solida scala per la quale soltanto il proletariato può raggiungere realmente la propria emancipazione, la soppressione delle classi e del dominio di classe, la giustizia, l'uguaglianza suprema del socialismo." (10)

Bordiga per i rivoluzionari riteneva apertasi l'epoca storica delle rivoluzioni. Il rifiuto, dunque, della costituente non significava tanto il rifiuto di prendere in considerazione un aspetto sia pur importante del riformismo, quanto lo sconfessare "in toto" il riformismo come arma spuntata obiettivamente operante sul piano della conservazione, quando le condizioni internazionali e quelle nazionali ponessero urgentemente all'ordine del giorno l'assalto rivoluzionario e la dittatura del proletariato:

"Che cos'é la Costituente? Pas grande chose, direbbero i francesi. È un'assemblea nazionale, eletta se vogliamo con suffragio allargatissimo che, anziché avere la funzione legislativa sia chiamata a discutere e stabilire una nuova costituzione politica dello Stato. Si tratta dell'applicazione massima del concetto borghese della sovranità popolare. È appunto questo concetto che non raccoglie per nulla la fiducia dei socialisti è anzi proprio quello la cui demolizione è uno degli oggetti precipui della critica marxista e dell'azione politica socialista.
Non dallo sviluppo e dalla intensificazione delle forme democratiche il socialismo attende la propria realizzazione, ma dalla lotta sociale tra le classi e dalla vittoria rivoluzionaria del proletariato.
La democrazia vuole salvare, in nome del cosiddetto diritto delle minoranze, la rappresentanza delle classi borghesi. Finché queste avranno diritto di rappresentanza conserveranno anche la maggioranza degli organi elettivi e manterranno il loro dominio. Il proletariato socialista vuole invece impadronirsi del potere politico per abolire in un secondo tempo il potere economico della borghesia e in un terzo tempo la divisione della società in classi, realizzando l'eguaglianza sociale degli uomini.
In Russia abbiamo visto la Costituente che si preparava a fare il gioco delle classi borghesi sciolta con la forza dai Soviet, organi della dittatura proletaria.
La Costituente dunque non ci seduce, i socialisti non alzeranno un dito per essa." (11)

I massimalisti che dopo le vicende belliche rappresentavano la maggioranza della Direzione, palesarono la loro ibrida collaborazione; sempre pronti a sostenere in via di principio le tesi rivoluzionarie, ma incapaci di uscire concretamente dal gioco delle parti, finendo per fungere da non desiderati mediatori tra due tendenze che nulla ormai potevano avere in comune.

Con questa poco monolitica struttura ideologica la direzione si riunì dall'1 all'11 Dicembre 1918 per un primo esame dei compiti del partito. Prevalse, anche se mediata, la posizione della sinistra che si concretizzò in un documento programmatico ricco di spunti di notevole interesse ma ancora impreciso e generico.

La Direzione, nel deliberare un programma di azione politica immediata, constata anzitutto come ormai gli elementi responsabili della presente situazione cerchino di rifarsi la perduta reputazione cogliendo dal patrimonio delle rivendicazioni proletarie alcuni postulati più noti, che oggi ritiene non più sufficienti a soddisfare le ardenti aspirazioni del proletariato colpito dai mali della guerra e anelante all'emancipazione internazionale della propria classe, nonché a rispondere al dovere di solidarietà coi socialisti di Russia e di Germania;
dichiara quindi che il Partito socialista, pronto a sostenere quelle rivendicazioni che le circostanze imporranno e saranno reclamate dalle organizzazioni proletarie, si propone come primo obiettivo l'istituzione della Repubblica Socialista e la Dittatura del proletariato coi seguenti scopi:
1. socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, miniere, industria, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri e marinai;
2. distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali;
3. abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all'unione di tutte le Repubbliche proletarie nell'Internazionale Socialista;
4. municipalizzazione delle abitudini civili e del servizio ospedaliero; trasformazione della burocrazia, affidata alla gestione diretta degli impiegati.
.Ed ecco il programma immediato:
1. immediata smobilitazione dell'esecito;
2. ritiro immediato dei soldati dalla Russia rivoluzionaria;
3. diritto delle libertà fondamentali della vita civile;
4. amnistia per tutti i condannati per reati politici e militari.

Oltre alla suddetta genericità e imprecisione dei punti riguardanti soprattutto la socializzazione dei mezzi di produzione e la distribuzione dei beni, chiari sintomi di cattiva digestione dei fondamentali capisaldi del marxismo, rimane l'antico vezzo di spezzare il programma minimo da quello massimo, come se le prospettive e i tempi di realizzazione fossero due azioni da compiersi a livelli diversificati. Non a caso il "massimalista Lazzari", pochi mesi dopo a Bologna, si ricorderà solo degli ultimi quattro punti, programma minimo, senza nemmeno riferirsi a quello massimo.

In sintesi, tra la fine dei 1918 e i primi mesi del 1919, la situazione si presentava con questi aspetti:

  1. Ad una disastrata condizione dell'economia, uscita dal conflitto prostrata più di quanto le cifre ufficiali stessero ad indicare, corrispondeva la necessità di trasformare l'industria bellica in industria civile, di tacitare il malcontento delle masse meridionali e di "collocare" i soldati che erano tornati dal fronte.
  2. La classe operaia si muoveva su di un piano di radicalizzazione delle lotte determinate sia dalle affamanti condizioni economiche che dagli echi della Rivoluzione d'Ottobre.
  3. Mentre la CGL era completamente scivolata sul piano della "composizione" degli interessi "immediati" dei lavoratori con quelli "storici" della borghesia, l'ala internazionalista rivoluzionaria cercava di uscire dal pantano in cui il partito si era cacciato dopo anni di indirizzo riformista.

Le correnti nel. P.S.I.

Il riformismo,perché si ritenne speculativamente estraneo, il massimalismo, perché incapace, non seppero dare della guerra e della Rivoluzione Russa un'interpretazione in termini classisti: questo compito spettò anche se solo in parte, a gruppi o correnti di sinistra che si mossero in questi ultimi anni in sintonia con gli avvenimenti russi e che rappresentarono il nucleo attorno all'elaborazione teorica del quale andò aggregandosi il futuro Partito Comunista d'Italia.

È opinione corrente in certa storiografia contemporanea attribuire al "Soviet" di Napoli e all'"Ordine Nuovo" di Torino in maniera pressoché paritetica, questo ruolo.

In questo senso é bene riandare, anche se per accenni, all'origine dei due "gruppi" e soprattutto alle posizioni politiche espresse, nei momenti anche precedenti la loro stessa costituzione, sui problemi politici di fondo, dai loro elementi più rappresentativi.

Gramsci e Bordiga, per Togliatti il discorso comincerà più tardi, possono essere presi come momenti soggettivi di uno sforzo di ricerca che andava maturandosi all'interno delle giovani coscienze socialiste di fronte agli enormi problemi che dal 1917 in poi si imposero al movimento operaio internazionale.

Durante il periodo bellico l'analisi più valida su questo terreno, in accordo con le tesi leniniste di Zimmerwald, fu portata avanti dai giovani socialisti di Napoli, di cui Bordiga era il leader. Gramsci a quell'epoca era ancora impastoiato in una problematica idealistica che poco mancò che lo travolgesse nel turbine dell'interventismo.

Sulla Rivoluzione Russa, mentre Bordiga si allineava sin dall'inizio per analisi e prospettive alla strategia bolscevica,in Gramsci abbiamo la più totale confusione del problema. In, un articolo apparso sul “Grido del popolo” il 29 Aprile 1917, si delinea chiaramente la sua concezione idealistica appena velata di massimalismo, dove la questione rivoluzione assume i caratteri di un processo di liberazione spirituale.

Ma più importante a questo riguardo è la "rivoluzione contro il capitale" in cui "la rivoluzione dei bolscevichi é materia di ideologie più che di fatti. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico".

Liquidata così la rivoluzione ed il materialismo storico di Marx, Gramsci conclude con una interpretazione a dir poco originale del materialismo:

"come massimo fattore di storia [non sono] i fatti economici bruti, ma l'uomo inteso come volontà sociale, collettiva... plasmatrice della realtà oggettiva... che può essere incanalata dove alla volontà piace." (12)

È evidente che siamo in presenza di un Gramsci ancora in "formazione", tuttavia va tenuto presente questo aspetto per meglio capire le posizioni che successivamente lo stesso Gramsci, con i compagni torinesi, espresse nelle esperienze di fabbrica nel capoluogo piemontese.

In uno dei primi articoli apparsi sull'"Ordine Nuovo" (13) fondato da A. Tasca con la collaborazione di Gramsci, Togliatti e Terracini, emerge quella che potremmo definire la posizione ideologica del gruppo:

Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra loro questi istituti... accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già sin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente e attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale... Il parino deve continuare ad essere l'organo di educazione comunista, il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e disciplinate della classe operaia e contadina.
Appunto per svolgere rigidamente questo suo ufficio, il partito non può spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio della responsabilità e della disciplina. Ma la vita sociale della classe lavoratrice è ricca di istituti, si articola in molteplici attività. Questi istituti e queste attività bisogna appunto sviluppare, organizzare complessivamente, collegare in un sistema vasto e agilmente articolato che assorba e disciplini l'intera classe lavoratrice... La dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa... Questo Stato non si improvvisa: i comunisti bolscevichi russi per otto mesi lavorarono a diffondere e far diventare concreta la parola d'ordine: Tutto il potere ai Soviet,e i Soviet erano già noti agli operai russi fin dal 1905.

Il tono dell'articolo, che è da attribuirsi a Gramsci, è per impostazione politica, di chiara impronta idealistica, dove l'aspetto dello scontro di classe lascia il posto alla maturazione graduale delle istituzioni proletarie che troverebbero lo spazio, oltre che la forza, di progredire verso conquiste socialiste, "Vera democrazia" all'interno dello stato borghese.

La stessa dittatura del proletariato non viene vista come l'atto conclusivo della lotta di classe che crea "ex novo" la condizione per la costruzione del socialismo, ma:

la dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe operaia.

Alcuni mesi dopo Bordiga, dalle pagine del "Soviet" (14) risponde ai compagni dell'"Ordine Nuovo" riprendendo l'argomento:

Sostenere, come i compagni de l'Ordine Nuovo di Torino, che i Consigli operai, prima ancora della caduta della borghesia, sono già Organi non solo della lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista è poi un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista... definito dall'errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico.

La questione non era di secondaria importanza, le posizioni dell'"Ordine Nuovo", anche se trasportate sul piano consiliare non cessavano di avere la loro matrice riformista. Non a caso lo stesso Bordiga con quell'intervento vide confermate le preoccupazioni espresse in un precedente articolo sul gruppo di Torino:

"Una sola osservazione, che non è una riserva... potrebbe lo studio concreto delle vitali applicazioni socialiste trascinare alcuno a porle fuori dell'ossigeno che le alimenta della dittatura proletaria, per considerarle compatibili con gli istituti attuali, scivolando verso il riformismo... È un pericolo possibile che abbiamo voluto additare più per uno scrupolo ortodosso, che per tintore che in esso incorrano i compagni de L'Ordine nuovo." (15)

Per tutto il 1919 la linea politica del gruppo torinese rimase invariata, non solo ma nel biennio successivo, oltre alla errata posizione consiliare venne meno sul problema di fondo che andava enucleandosi, cioè sulla necessità del partito.

Per Bordiga e i "soviettisti" di Napoli il partito doveva avere il compito di preparare le masse alla rivoluzione, compito dei rivoluzionari (siamo già nel venti) era quello di creare un partito "nuovo" che rispondesse alle esigenze che le condizioni obiettive imponevano. Per i torinesi il compito dei rivoluzionari era quello di prefigurare sin da allora gli organi del potere proletario, sottacendo sul partito, non che ne sottovalutassero il ruolo e la funzione, solo che ritenevano che il partito già ci fosse.

Se è vero che l'Ordine nuovo cercò, soprattutto nel 1920 di assumere una linea autonoma, senza però porsi come alternativa politico-organizzativa nei confronti del partito, va anche rilevato come non riuscì, per elaborazione teorica e prassi politica a recidere completamente il cordone ombelicale che lo legava all'impostazione riformista.

Posto questo problema nei termini indicati è risolto anche l'altro, di vedere quanta parte i due gruppi abbiano rispettivamente avuto nello sforzo di costruire il partito rivoluzionario. Per il Soviet lo sviluppo fu diverso. È attorno alla personalità di Bordiga che il 6 luglio a Roma, in un convegno di corrente si creò il gruppo astensionista, futuro cardine della scissione di Livorno.

Le tesi della frazione (16) apparentemente apparivano incentrate sul problema dell'astensione, come risposta "dottrinale" al partecipazionismo, in realtà oltre alla "questione" elettorale la frazione astensionista formulava proposte di ben altra importanza.

Innanzitutto si ribadiva l'apertura del “periodo storico della lotta rivoluzionaria tra proletariato e borghesia”, teorizzazione non nuova nell'ambito della sinistra, ma di determinante importanza, se portata sino alle sue estreme conseguenze, in secondo luogo si valutava, alla luce delle situazioni obiettive, superato il programma di Genova del 1892, con tutto ciò che comportava sul piano di una nuova elaborazione tattico-strategica più aderente alle recenti esperienze bolsceviche.

Mancava il problema del partito, problema che si impose in tutta la sua ampiezza e gravità solo dopo il Congresso di Bologna.

Per concludere, il partito si presentava al primo congresso postbellico come un "calderone" nel quale trovavano ancora posto tutte le correnti possibili, attestate su di un vastissimo arco che andava dal riformismo più conseguente di Turati alle tesi rivoluzionarie di Bordiga, passando attraverso le composite quanto ibride posizioni dei massimalisti.

Le schermaglie precongressuali avevano già definito i temi principali dello scontro, compresa l'adesione alla III internazionale nel frattempo costituitasi.

Il Congresso di Bologna - 5-8 ottobre 1919

I lavori si apersero, sotto la presidenza Bacci, in un clima di euforia e di inneggio alla rivoluzione russa, mentre un enorme ritratto di Liebknecht occupava quasi interamente una parete del teatro comunale. Il presidente lesse una lettera di Bucharin, a nome del CC del Partito Comunista russo, in cui si concludeva con un invito, che suonò alla coscienza dei rivoluzionari come un drammatico appello:

La nostra Repubblica Socialista è una fortezza assediata. Invano da due anni aspettiamo il valido aiuto dei proletari d'Europa...

In questo appello Bucharin non faceva altro che ribadire il concetto internazionalista delle lotte di classe che aveva informato sin dall'inizio la lotta del partito bolscevico. Trotsky nel 1907, lo stesso Bucharin con Lenin nel II Congresso del partito non si stancarono mai di ripetere:

Se i popoli d'Europa non si sollevano schiacciando l'imperialismo noi saremo schiacciati, ciò e fuor di dubbio. O la rivoluzione russa susciterà il turbine della lotta in Occidente, oppure i capitalisti di tutti i paesi soffocheranno la nostra lotta. Noi dicevamo e diciamo che in definitiva tutto dipende dal fatto che la rivoluzione internazionale vinca o non vinca. In definitiva la rivoluzione internazionale, e soltanto essa è la nostra salvezza.

Il monito, quindi, andava oltre i limiti di un accorato appello, ma era una precisa indicazione dei rivoluzionari russi e della III Internazionale.

Nonostante il positivo esordio, gli animi furono smorzati dalla piatta relazione Lazzari che funse soltanto da momento interlocutorio dello scontro tra le correnti.

A nome di quella astensionista, il primo a prendere la parola fu Bordiga.

Il suo intervento, lucido e comprensivo di ogni aspetto, ebbe inizio con l'approvazione dell'operato del P.S.I. che aveva tempestivamente dichiarato la propria adesione alla III Internazionale, l'unico rammarico riguardava il modo di questa adesione, che avrebbe dovuto essere un atto plebiscitario del congresso e non la conseguenza di una decisione della Direzione. Ad ogni buon conto, che il partito si fosse schierato su questo piano, rompendo con la politica guerrafondaia e controrivoluzionaria della socialdemocrazia della II Internazionale, non poteva che essere un fattore importante oltre che decisivo per le sorti del proletariato italiano, costretto a vivere gli importatiti avvenimenti mondiali in un clima di voluta confusione politica. A questo riguardo l'oratore dovette, anche se brevemente, difendere la frazione astensionista dalle accuse di anarchismo e sindacalismo:

Noi, compagni, siamo stati malamente interpretati: da molte parti si è parlato di anarchismo, di sindacalismo. Noi invece siamo, e ci teniamo ad esserlo, socialisti marxisti, noi teniamo a dimostrare che il nostro atteggiamento presente risponde in un modo completo a quelle che sono le basi fondamentali della dottrina del partito, stabilita dal classico Manifesto dei Comunisti del 1848... Oggi che assistiamo ad un effettivo processo di realizzazione socialista, vediamo che esso si adagia perfettamente sulle previsioni del Manifesto e constatiamo che la via per la quale la classe lavoratrice lotta per emanciparsi e per attuare il comunismo è appunto quella che Marx ed Engels ed i loro seguaci avevano allora tracciato.

Nella difesa della frazione sono già contenuti i termini dell'attacco al riformismo ufficiale e a tutte quelle correnti che vedevano nelle libertà democratiche la via delle conquiste socialiste. Anzi se si voleva una verifica, gli accadimenti russi stavano proprio a dimostrare che non solo non era possibile portare la classe operaia al potere per via costituzionale, ma che la lotta doveva essere portata al di fuori e contro queste istituzioni e contro coloro i quali nei fatti, oltre che nella "ideologia" la sostenevano.

Di conseguenza, compagni, fin da quando noi ci siamo chiamati socialisti, ci siamo messi al di sopra dell'inganno della democrazia parlamentare ed abbiamo negato che gli istituti rappresentativi della borghesia rappresentassero effettivamente gli interessi collettivi e che attraverso essi il proletariato, sebbene sia la maggioranza, possa migliorare comunque le sue condizioni ed i suoi rapporti sociali e farsi strada, farsi luce verso la propria emancipazione... Questa revisione socialdemocratica della concezione marxista, che aveva condotto verso il riformismo, che aveva condotto la massa a credere al miraggio dei vantaggi che potevano derivare da una azione parlamentare, questa concezione è stata smentita dalla storia che ci fa assistere allo sviluppo della rivoluzione socialista in Russia, ed in altri paesi, Baviera ed Ungheria, nei quali essa è stata sopraffatta ma ove l'esperienza ne resta come fondamentale testimonianza.

Le conclusioni dell'attacco ai riformisti non potevano che sfociare nella richiesta del loro allontanamento:

E allora non si tratterà più soltanto di dubitare, di sottilizzare o di dimostrare che la rivoluzione non è possibile o imminente... Noi vogliamo anticipare questo momento e vogliamo che fin da adesso il partito affermi nel suo contenuto programmatico il metodo rivoluzionario, massimalista, bolscevico, parole tutte sinonime, che esprimono la stessa cosa e, diciamo noi, come volontà della maggioranza, ne faccia patrimonio del programma del partito col preciso intendimento che il programma del partito, tale quale è, ognuno di noi deve accettarlo e che di fronte al programma del partito non vi è solo la disciplina dei fatti, ma la stessa disciplina del pensiero, in quanto chi non accetta completamente il programma non ha altra via che uscire dalle file della nostra organizzazione.

È in questo senso che Bordiga richiedeva la revisione del programma di Genova per una migliore specificazione dei concetti di rivoluzione e di dittatura proletaria, chiamando i massimalisti al confronto su questi temi specifici senza tentare di:

gettare un ponte fra due metodi e creare la sintesi delle due tendenze che rappresentano nettamente le opposte concezioni...

Ora, compagni, noi domandiamo questa dichiarazione, noi pretendiamo che il Congresso dica se chi nega questa arma della lotta violenta per la conquista del potere può essere un cittadino del nostro partito e se partito e proletariato possono essere esposti al pericolo di vedere domani persone aderenti al Partito Socialista che abbiano in tasca la tessera di questo partito, mettere quel pezzo di carta, che ha il suo valore, attraverso le sorti della rivoluzione.

Ricucendo poi la questione "dottrinale" o di principio all'aspetto tattico delle elezioni e più in generale della questione parlamentare, Bordiga chiarisce il perchè dell'astensionismo:

Pensate che dinnanzi alla storia avrete la responsabilità di aver creduto oggi compatibile, nell'attuale situazione, ingaggiare il proletariato nella lotta elettorale; aver creduto compatibile colla partecipazione all'istituto statale della democrazia rappresentativa borghese, la lotta che dobbiamo fare per arrivare a travolgerla e per istituire al suo posto i nuovi istituti della società comunista. Questo compito grandioso che sta dinnanzi al nostro Partito e che ne esige tutta l'attenzione, è un compito assai difficile e che si presenta con ostacoli di non lieve natura. Noi dobbiamo, in mezzo alla massa proletaria, con maggior precisione di quanto finora si è fatto, con maggiori mezzi, con maggiore intensità, portare la definizione magari schematica e dogmatica del comunismo, e dire ad essa quale deve essere l'arma da usare per debellare l'avversario borghese. Questo metodo, che conduce il proletariato alla sua emancipazione, occorre farlo penetrare nella coscienza della massa operaia; occorre che essa abbia la convinzione che quella è la sola via della emancipazione, perchè solamente quando il proletariato vedrà quella sola via, e tutte le altre sbarrate, si deciderà con tutte le sue forze e tutto il suo slancio a travolgere l'ostacolo. Occorre quindi fare entrare nella massa la visione di questo nuovo metodo che ha contro di sé tutta la propaganda borghese, tutto l'avvelenamento fatto fra noi dal metodo democratico e parlamentare, dedicare tutte le nostre forze al debellamento di questo istituto parlamentare della odierna borghesia, sottrarre oggi all'inganno la coscienza dei proletari per domani, condurli all'assalto delle difese borghesi. Questo compito cosi delicato, difficile e complesso non può farsi che prendendo al più presto possibile un netto atteggiamento che separi il vero e classico metodo rivoluzionario socialista dall'insidia di altri metodi che corrono il rischio di mantenere il proletariato incatenato alla sua oppressione.
Ecco perché il nostro dissenso da voi - concluse l'oratore - ecco perché noi vogliamo trascinarvi via da quell'ambiente per ricondurvi vicino al nostro proletario a fare la propaganda tenace del metodo soviettista, per la preparazione dell'urto finale che permetterà al proletariato di costruire sulle rovine di questo fradicio istituto della democrazia borghese il nuovo ordine sociale, suprema conquista della rivoluzione comunista.

La prima risposta della destra si espresse per bocca di Treves. I problemi sul tappeto erano scottanti, non solo, ma da come erano stati posti dalla sinistra, esigevano una chiara quanto definitiva adesione o respinta.

In discussione c'erano due interpretazioni del socialismo, due metodi di analisi e di lotta i quali non solo non coincidevano, ma finivano per escludersi vicendevolmente. Già Treves, con Turati e Prampolini aveva elaborato una piattaforma precongressuale con cui tentò di parare in qualche modo il prevedibile isolamento, spostandosi, ma non troppo, sulle posizioni del massimalismo di destra (lazzaro-massimalisti). L'espediente sortì qualche misero effetto sul piano delle votazioni finali, dove la destra rinunciò ad un ordine del giorno proprio ma non impedì lo scontro chiarificatore.

Mantenendosi dunque sulle posizioni precongressuali e di sempre, Treves rintuzzò Bordiga innanzitutto sul programma di Genova definendolo come la condizione prima e irrinunciabile di “tutti i principi socialisti, tutte le idee socialiste e tutte le azioni socialiste”... Passò quindi alla difesa incondizionata, anche se non priva di errori, dell'operato del partito e del conseguente cammino compiuto dal socialismo in Italia dopo il 1892.

Esaurite le difese di un recente passato socialismo italiano con la poco calzante affermazione: “la conquista del potere non l'avete inventata voi, è già scritta sul programma di Genova del 1892” sottacendo molto coerentemente sul fatto che nel vecchio programma si parla in termini riformistici di conquista dei pubblici poteri e non di distruzione violenta dell'apparato statale borghese sostituito dalla dittatura proletaria, Treves affrontò di petto il problema centrale, quello della rivoluzione, riproponendo le vecchie tesi di "Critica sociale" sulla impossibilità di una rivoluzione socialista non solo nella "arretrata" Russia ma anche nella poco "sviluppata" Italia per concludere con il monito di non cadere nella falsa concezione di un “socialismo aristocratico e barricadiero”.

Come si può facilmente notare la replica di Treves non fu sufficientemente incisiva soprattutto sul piano della difesa dell'analisi evoluzionistica nell'interpretazione dei fenomeni sociali ma si limitò alla contrapposizione formale del metodo riformista a quello rivoluzionario, di dottrina a dottrina, senza tentare il distinguo sul piano della elaborazione teorica dei principi. Di questo si farà carico, nel corso del suo intervento, Turati dopo le dichiarazioni dei massimalisti.

Per la mozione massimalista il relatore ufficiale fu Gennari. Il tocco del suo intervento, per quanto riguarda la parte iniziale, fu conforma a quello di Bordiga, per i punti riguardanti la critica al riformismo e al ristabilimento del marxismo come scienza rivoluzionaria che aveva trovato nel bolscevismo e nella dittatura del proletariato l'unica sua manifestazione valida.

Sul piano della tattica parlamentare ci fu una aperta dichiarazione per l'elezionismo, giustificato dal fatto che non era il caso di:

lasciar libero il campo nelle elezioni a tutti gli altri, ai borghesi di ogni colore, ai reazionari, ai clericali, ai riformisti, a coloro che si maschererebbero da socialisti e forse anche a qualcuno dei nostri che uscirebbe dal Partito e che si presenterebbe in veste e come continuatore del pensiero del Partito Socialista.

Sul problema della permanenza o meno dei rifornisti nel partito, Gennari fu alquanto generico tirando fuori una formula non molto compromettente:

le forze convergenti rimangano dunque nel partito, le forze divergenti si distacchino.

In altri termini si rigettava l'eventualità di una frattura o espulsione per accettare quella di un volontario quanto difficile allontanamento spontaneo dei riformisti. Nelle parole di Gennari c'era dunque una larvata speranza di omogeneità che i risultati del Congresso e i fatti posteriori. condannarono completamente.

Il quarto intervento fu di Lazzari (massimalista unitario). Al vecchio segretario premevano due questioni innanzitutto, le quali diedero il tono al suo intervento.

In primo luogo la questione parlamentare. Usufruendo della dichiarazione di Graziadei, nel frattempo intervenuto, si oppose alla posizione intransigente degli astensionisti affermando che, se le forze di sinistra avevano premuto per una "preparazione rivoluzionaria" in seno al partito, non si poteva certo affermare che questa avesse ottenuto dei risultati concreti e che quindi si rendeva necessario oltre che indispensabile partecipare alle elezioni, che venivano tatticamente interpretate come:

occasione favorevole onde intaccare l'ingranaggio col quale la classe dominarne esercita il suo potere in Italia.

Contro la sinistra Lazzari difese anche il programma di Genova ritenendolo sufficiente e valido anche se rapportato alle più recenti esperienze di vita del proletariato internazionale, anzi, nel programma del 1892 vedeva compiutamente realizzate, in sede programmatica, le prospettive di Marx ed Engels, ogni aggiunta avrebbe assunto il tono di un processo di revisionismo. La perfetta aderenza del massimalismo unitario al riformismo appare chiara e non è un caso che gli stessi riformisti non ebbero grosse difficoltà a riconoscersi nella mozione Lazzari facendo attorno ad essa quadrato nel momento della votazione. In secondo luogo, conformemente alla impostazione iniziale, Lazzari concluse con una rivalutazione dei riformisti arrivando a dichiarare che il partito non poteva assolutamente fare a meno della loro presenza e che, eventualmente...

il problema era ora nel rinnovamento della rappresentanza parlamentare socialista e nell'auspicio che la futura Direzione potesse meglio coordinare l'azione.

Serrati, come nota Bordiga, fu più patetico che politico. Nel tentativo di salvare capra e cavoli lasciò tutto nel vago, mediando gli attacchi ai riformisti con la necessità di una critica sul programma di Genova senza specificare l'essenza del riformismo e dove il programma del 1892 fosse monco.

Terminò con un appello di clemenza verso quei compagni di "Critica sociale" che avevano provocatoriamente “fatto il gioco della reazione contro la rivoluzione russa”. In una cosa Serrati fu particolarmente efficace: nella difesa dell'esperienza bolscevica e della violenza rivoluzionaria, per il resto non portò alcun serio contributo al dibattito, anzi accentuò il disorientamento che inevitabilmente si era impadronito di una buona parte dell'assemblea impreparata ad affrontare quasi di colpo, la vastità dei problemi che venivano agitati dalla sinistra e dalla destra.

Buon ultimo, ma non per questo ideologicamente disarmato, Turati, ottimo oratore come sempre, perorò nel modo più compiuto la causa del riformismo, completò cioè quello che Treves aveva appena accennato. Il fondatore del P.S.I. non ebbe mezze misure nel difendere il "suo" socialismo. Per lui l'insegnamento di Marx, se ancora vi faceva riferimento, indicava la via al socialismo per via evoluzionistica e non dialettica, dove per tattica andava intesa la capacità di sfruttare o di creare tutti quegli spazi di democrazia all'interno della struttura borghese sino a quando le "quantità" delle riforme ottenute non cambiasse la "qualità" della società. Tutto il resto, comprese e prima di tutte le tesi bordighiste, erano rigurgiti “anarchici o anarchicheggianti”. Turati pensò di aver cavato il pezzo forte quando tentò di paragonare lo scontro che stava sostenendo con i rivoluzionari, con quelli che precedettero e sancirono la definitiva rottura con "l'idealismo" anarchico. Accennò alla necessità di:

ribattere gli stessi identici discorsi che facemmo a Milano nel 1891, alla Sala Sivori di Genova nel 1892, a Reggio Emilia nel 1893. Un rinculo di 30 anni...
Allora, nel 1892, si presentava quasi identica la Stessa odierna situazione. Mutati i nomi ed aggiunti nuovi ingredienti che oggi ci forniscono le rivoluzioni russa e ungherese e l'ultima guerra, il fondo è sempre quello: Bordiga, come Galleani, Serrati come Carati.

Il gioco sottile, anche se scorretto, di "anarchizzare" la sinistra rivoluzionaria, fu un espediente difensivo che non poteva trovare molti consensi, ma era pur sempre una carta da giocare ed il riformismo non perse l'occasione. Lascia perplessi l'aver accomunato il qualunquismo di Serrati al rivoluzionarismo di Bordiga, quando nei fatti, oltre che nelle dichiarazioni, c'era un abisso tra le due posizioni.

Ma al di là del subdolo gioco polemico, Turati si permise il lusso di capovolgere i termini del marxismo sfrondandolo del suo contenuto rivoluzionario per fargli assumere le sembianze, a lui più congeniali, di progressismo sociale riducendo la dialettica a inutile questione dottrinale e la lotta di classe a un processo di metamorfosi tanto più breve quanto più le forze socialiste sapessero resistere alle fumose "ideologie" del cammino barricadiero. Queste palingenetiche idee rischiavano di rigettare il proletariato nella "preistoria" del socialismo. Il socialismo, per Turati era definitivamente uscito dalla utopia e la "vera" scienza marxista era il riformismo.

Engels (17) era stato completamente cancellato!

Chi, come i rivoluzionari nostrani, avesse voluto trasportare in Italia “il congegno pesante e tutto meccanico dei Soviet” che poteva essere accettato dalla “fatalistica e mistica rassegnazione dei poveri mugicchi” non solo avrebbe trasportato un fallimento da una esperienza all'altra, ma ricacciato il marxismo scientifico nel mondo dell'utopia.

In questo intervento Turati superò i rinnegati di ogni risma, il suo rovesciamento del marxismo fu così totale che in paragone l'abiura di Bernstein e gli equilibrismi di Kautsky diventavano quisquilie di poco conto.

Comunque, coerentemente con la propria impostazione, la guerra, ben lungi dal rappresentare la condizione oggettiva su cui innestare un processo rivoluzionario, era vista come una fase storica particolarmente propizia alle “riforme radicali in direzione rivoluzionaria”, dunque, concluse:

Noi siamo in un periodo essenzialmente riformatore, tutto sta nel saperne profittare.

Successivamente in polemica con i massimalisti affrontò il tema della violenza. In effetti voleva essere una risposta a Serrati ma finì con l'assumere il significato di condanna dell'atteggiamento ambiguo del massimalismo che, mentre gridava alla violenza, sul piano dei fatti concreti, non riusciva a muovere un dito, e in questo Turati aveva ragione; ebbe torto quando nella violenza vedeva un pericolo alla politica di accostamento alle altre classi, che si sarebbero allontanate inorridite facendo il gioco dell'avversario. Non che la cosa fosse poco verosimile, solo che non era una argomentazione sufficiente a castrare il marxismo nelle sue prerogative peculiari quali la dittatura del proletariato e la violenza rivoluzionaria.

E in queste condizioni ci venite a parlare di violenza vittoriosa immediata! Questo è un inganno mostruoso, una farsa, che per altro può tralignare in tragedia, preparando i Tribunali di guerra, la reazione più feroce, la compressione militarista, ma sotto la ostilità di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi che si avvicinano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro ascensione e la liberazione del mondo e che noi - colla minaccia della dittatura e del sangue - gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari, privandoci di un presidio inestimabile di consensi, di cooperazioni, di forze morali che, in dati momenti, sarebbero decisive a nostro favore! Ma noi facciamo di peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perchè è chiaro che, mantenendole nell'aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e per quale non lavorate se non u chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa.

Concludendo, Bordiga prima, Turati poi, posero inequivocabilmente le condizioni per una rottura, ma la scarsa pressione dei capi opposti permise all'elastico massimalista di reggere alla tensione. L'elastico si spezzerà solo due anni dopo, ma sarà troppo tardi.

È inutile, ai fini di questa panoramica riprendere le repliche che si sono susseguite dopo gli interventi dei relatori ufficiali, vanno però ricordati due episodi significativi anche se per motivazioni differenti. Il primo riguarda gli ordinovisti i quali non presero parte minimamente al dibattito.

L'unico contributo che seppero dare, fu la partecipazione di Tasca e Rabezzana alla stesura della mozione massimalista elezionista di Serrati. L'altro riguarda lo scontento di molti delegati massimalisti. Su questo punto, per tutti prese la parola Abegaille Zanetta che si espresse in modo duro sia per la inconcludente ed equivoca mozione Serrati e ancor peggio per quella lazzariana il cui contenuto destrorso aveva permesso ai riformisti di aggregarsi, vanificando la possibilità di un loro definitivo allontanamento.

I voti si espressero su tre mozioni:

  1. Mozione Lazzari, massimalista unitario
  2. Mozione Serrati, massimalista elezionista
  3. Mozione Bordiga, massimalista astensionista

Tralasciando la prima riproduciamo il testo delle altre due.

Mozione della Frazione massimalista elezionista

Dal Resoconto

Il Congresso del P.S.I. adunato in Bologna nei giorni 5-8 ottobre 1919, riconoscendo che il programma di Genova è ormai superato dagli avvenimenti e dalla situazione internazionale, creata dalla crisi mondiale sorta in conseguenza della guerra, proclama che la rivoluzione russa, il più fausto evento della storia del proletariato, ha creato la necessità in tutti i paesi di civiltà capitalistiche di agevolarne l'espansione;

premesso poi che nessuna classe dominante ha rinunciato finora al proprio dispotismo se non costrettavi dalla violenza e che la classe sfruttatrice fa ad essa ricorso per la difesa dei propri privilegi e per il soffocamento dei tentativi di liberazione della classe oppressa, il Congresso è convinto che il proletariato dovrà ricorrere all'uso della violenza per la difesa contro le violenze borghesi, per la conquista del potere e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie;

afferma la necessità di avvisare ai mezzi di preparazione spirituale e tecnica; considerando poi la situazione politica attuale nei riguardi delle prossime elezioni, delibera di scendere in giostra sul terreno elettorale c dentro agli organismi dello Stato borghese per la più intensa propaganda dei principi comunisti e per agevolare l'abbattimento di detti organi della dominazione borghese.

Informandosi infine alle considerazioni suesposte, delibera di modificare il programma del Partito, concretandolo nella forma seguente:

PROGRAMMA

Considerando che nel presente ordinamento della società gli uomini sono divisi in due classi; da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali, che i salariati d'ambo i sessi, d'ogni parte e condizione, formano, per la loro dipendenza economica, il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d'inferiorità e d'oppressione; riconoscendo che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico rappresentano il dominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice;

che i lavoratori non potranno conseguire l'emancipazione se non mercè la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione;

riconoscendo inoltre che la società capitalistica, col conseguente imperialismo ha scatenato e scatenerà guerre sempre più vaste e micidiali;

che solo l'instaurazione del socialismo condurrà alla pace civile ed economica;

che lo sfacelo prodottosi in tutto il mondo civile è il segno evidente del fallimento che minaccia tutti i paesi, vinti e vincitori;

che la manifesta incapacità della classe borghese a rimediare ai danni da essa prodotti, mostra come si sia iniziato un periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ormai all'abbattimento violento del dominio capitalistico borghese e alla conquista del potere politico ed economico da parte del proletariato;

che gli strumenti di oppressione e di sfruttamento del dominio borghese (Stato, comuni e amministrazioni pubbliche) non possono in alcun modo trasformarsi in organismi di liberazione del proletariato, che a tali organi dovranno essere opposti organi nuovi proletari (Consigli dei lavoratori, contadini e soldati, consigli dell'economia pubblica ecc.) i quali, funzionanti da prima (in dominio borghese) quali strumenti della violenta lotta di liberazione, divengono poi organismi di trasformazione sociale ed economica, e di ricostruzione del nuovo ordine comunista;

che la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso dalla classe borghese a quella proletaria, instaurando così il regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato, che in tale regime di dittatura dovrà essere affrettato il periodo storico di trasformazione sociale e di realizzazione del comunismo, dopo di che con la scomparsa delle classi scomparirà anche ogni dominio di classe ed il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti;

DELIBERA

  1. di informare la organizzazione del P.S.I. ai suesposti principi;
  2. di aderire alla Terza Internazionale, organismo proletario mondiale, che tali principi propugna e difende;
  3. di promuovere accordi con le Organizzazioni sindacali che sono sul terreno della lotta di classe, perchè informino la loro azione per la più profonda realizzazione dei suesposti principi.

Mozione della Frazione Comunista Astensionista

Dal Resoconto

Il XVI Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano dichiara che il programma costitutivo di Genova del 1892 non risponde più alle esigenze della vita e dell'azione del partito;

delibera che il partito faccia parte integrante dell'Internazionale comunista accettandone il programma costitutivo di Mosca ed impegnandosi ad osservare la disciplina dei congressi internazionali comunisti;

dichiara incompatibile la presenza nel partito di coloro che proclamano la possibilità dell'emancipazione del proletariato nell'ambito del regime democratico e ripudiano il metodo della lotta armata contro la borghesia per la instaurazione della dittatura proletaria;

delibera che il partito assuma il nome di PARTITO COMUNISTA e adotti il programma che segue, nel quale, sulla base delle dottrine fondamentali bandite nel Manifesto dei Comunisti nel 1848 e delle direttive politiche sulle quali procedono le rivoluzioni contemporanee, sono prospettati gli sviluppi storici del trapasso dal presente ordine sociale a quello comunista, ed è stabilito il compito del partito nelle diverse fasi di tale processo;

delibera che il partito si astenga dalle lotte elettorali intervenendo nei comizi a propagandare le ragioni di tale suo atteggiamento, ed impegna tutti gli organi e le forze del partito all'opera:

  1. di precisare e diffondere nella classe operaia la consapevolezza storica della necessaria realizzazione integrale del programma comunista;
  2. di allestire gli organi proletari e i mezzi pratici di azione e di lotta necessari al raggiungimento di tutti i suoi successivi caposaldi programmatici.

Esito della votazione

Dall'Almanacco Socialista - 1920

Hanno votato 1418 sezioni rappresentanti 66.708 soci.

Per l'o.d.g. Serrati, mass. Elezionista sez. 1012 voti 48.411
Per l'o.d.g. Lazzari, mass. Unitario sez. 339 voti 14.880
Per l'o.d.g. Bordiga, mass. Astensionista sez. 67 voti 3.417

I destri bloccarono sulla mozione Lazzari.

Deliberazione della Frazione Astensionista dopo il voto 8 ottobre 1919

Dal Soviet del 20 ottobre 1919 - Dopo il voto favorevole, con grande maggioranza, alla tendenza Serrati, la frazione adottò con voto unanime il seguente deliberato.

I delegati al XVI Congresso Nazionale Socialista aderenti alla frazione Comunista Astensionista:

visto il deliberato con il quale la grande maggioranza del Congresso ha adottato la tattica elezionista e riconfermando il loro punto di vista secondo il quale una simile tattica contraddice al programma massimalista, ai metodi della Terza Internazionale ed alla preparazione dell'azione rivoluzionaria del proletariato italiano; ed è inevitabile una netta separazione tra i seguaci del metodo social-democratico e quelli del metodo comunista;

deliberato di proporre alle Sezioni da loro rappresentate di rimanere nel seno del Partito Socialista Italiano rinunciando per disciplina ad agitare nella massa la propaganda dell'astensione elettorale;

dichiarano costituita la Frazione Comunista Astensionista nel partito, invitando tutte le sezioni ed i gruppi che ne condividono il programma presentato al congresso a farvi adesione;

passano a discutere sulle funzioni e sul compito che la frazione dovrà esplicare.


L'errore commesso a Bologna dagli astensionisti fu quello di aver posto l'accento non sulla necessità della scissione e della costruzione del partito, ma sul problema dell'astensione. L'errore è tutto qui, aver immobilizzato la frazione, formata da autentici quadri, dietro il presupposto del tutto teorico dell'astensionismo e non essersene serviti come base essenziale della polarizzazione delle forze verso l'obiettivo del partito di classe.

Eppure non è mancato chi intendesse fare della frazione astensionista il primo nucleo formativo del partito di classe, ponendo obiettivamente il problema della scissione. Verdaro, studioso dei problemi del movimento operaio e uno degli esponenti dell'astensionismo, nel fare il cappello alle Tesi del materiale relativo al congresso di Livorno, scriveva:

La frazione astensionista del Partito Socialista Italiano si propone dunque di seguire il processo della sua trasformazione in partito per operare la scissione nel seno del Partito Socialista e per fondare la Sezione Italiana dell'Internazionale Comunista.

L'affermazione era particolarmente significativa perchè poneva con evidenza questi compiti alla frazione, allora di estrema attualità: i quadri della frazione astensionista come centro di polarizzazione del nuovo partito e la scissione, compiti maturati nella convinzione che il Partito Socialista non poteva essere trasformato in nessun modo in un partito rivoluzionario.

La tattica astensionista, inserita in una situazione incandescente e a spinta rivoluzionaria, sarebbe risultata infinitamente più concreta e feconda di sviluppi d'ogni partecipazionismo elettorale, se un esagerato patriottismo di frazioni non avesse viziato l'esatta valutazione del ruolo del partito rivoluzionario, ciò che diede agli avversari l'appiglio polemico di appaiare la frazione astensionista italiana al movimento dei "tribunisti" olandesi di Gorter e di Pannekoek.

Prima e dopo Bologna non si poteva essere che astensionisti 'e in tal senso doveva essere orientata una politica autenticamente rivoluzionaria. Ma chi era chiamato a far sua questa politica? Quale lo strumento più idoneo ad eseguirla se tutto era in funzione della esistenza e conservazione del Partito Socialista, un partito questo, dominato dal gruppo parlamentare e dilaniato all'interno dall'insanabile conflitto tra le forze della riforma e quella della rivoluzione?

Che una tale visione critica faccia centro e metta in evidenza la gravità dell'errore, è avvertita anche da Bordiga, cui l'errore viene attribuito, quando in un suo scritto accenna debolmente ad una scusante che, per essere stata posta sul piano del compromesso, non attenua ma approfondisce le responsabilità dell'errore, quella d'aver proposto ai massimalisti l'abbandono della pregiudiziale astensionista, che avrebbe comportato la totale castrazione della frazione, in cambio del piatto di lenticchie del "taglio" dalla destra opportunista. (18)

La prospettiva era dunque quella di realizzare un partito senza riformisti e non quella di un partito nuovo eretto sulla base della frazione astensionista.

Il congresso di Bologna non darà il crisma né all'una né all'altra prospettiva. Tuttavia la situazione obiettiva poneva l'urgenza d'una guida rivoluzionaria, ed era particolarmente favorevole ad una tale iniziativa; allo stato potenziale esistevano inoltre forze rilevanti del Partito Socialista spiritualmente disposte ad assecondare l'impresa.

Ma nessuno osò e alla luce delle esperienze posteriori, è possibile individuare le ragioni del perchè non si è osato. L'errore di fondo è poi sempre lo stesso, quello cioè di vedere i problemi soprattutto dal punto di vista quantitativo, per cui furono portati a sottovalutare il ruolo della frazione dal punto di vista della sua realtà e possibilità in quanto organizzazione: a minimizzare la sua influenza tra le masse e nel contempo a ingigantire le conseguenze della ubriacatura elettoralistica e parlamentare; il timore, in una parola, di non riuscire anche se nelle masse era profondamente operante la suggestione della Rivoluzione d'Ottobre, delle personalità di Lenin e di Trotsky e soprattutto era vivo e generalizzato il convincimento che nessuna seria conquista rivoluzionaria poteva passare attraverso al via della legalità e l'utilizzazione del parlamento democratico. Tutto ciò può essere attribuito a difetto d'uomini, a certe loro carenze di intuizione e di ardimento rivoluzionario, ma non spiega tutto.

La ragione vera, invece, va ricercata nell'indirizzo politico degli organi direttivi della III Internazionale che di fronte all'opera di selezione, di scissioni e di adesioni avevano adottato il criterio tattico del massimo risultato quantitativo e della minore discriminazione politica, favorendo, quando non imponendo, il taglio più a destra possibile.

Sappiamo che di fronte a tale indirizzo politico bisognava o supinamente accettare o coraggiosamente rompere o lasciare ad altri la responsabilità per passare ad una aperta opposizione; nel caso specifico della frazione astensionista bisognava rompere col partito socialista, intelligentemente svuotato delle sue forze politicamente sane e mettere tempestivamente l'Internazionale di fronte al fatto compiuto in modo da costringerla a scegliere tra la frazione eretta a funzione di partito, come unica garanzia della lotta rivoluzionaria nel nostro paese, e il Partito Socialista perduto definitivamente a questo compito storico.

E quando non si opera su questo piano con la dovuta risolutezza e tempestività, non si perviene alla costruzione del partito nel momento storico in cui esso è necessario, oppure, quando verrà realizzato, come a Livorno, sarà troppo tardi e dovrà mettersi alla guida d'un proletariato non all'assalto del potere, ma in piena ritirata.

Da Bologna a Imola nel cammino della scissione

Le elezioni del 16 novembre 1919 furono un trionfale successo del P.S.I. con oltre 1.800.000 voti per una percentuale del quasi 30%. Dietro a questo successo, dovuto più alle favorevoli condizioni generali che alle effettive capacità di guida politica del partito, si nascondevano grossi problemi tattico-strategici, che il Congresso di Bologna aveva avuto il merito di denunciare ma non di risolvere. La campagna elettorale; orientata dalle indicazioni massimaliste ad un rivoluzionarismo generico quanto esteriore “tutto il potere al proletariato radunato nei suoi consigli” oppure “chi non lavora non mangia” ecc. senza mai scendere sul piano della concreta soluzione organizzativa delle già vaghe indicazioni politiche, se sortì l'effetto di catalizzare verso il partito la rabbia esasperata delle masse, contribuì anche a mettere a nudo l'immobilismo degli organi direttivi.

A questo stadio di sviluppo delle situazioni, il grosso pericolo non era fornito dalla possibilità che il gruppo parlamentare si rendesse interprete, come in passato, di atteggiamenti o iniziative filo-governative, ma dal suo adeguarsi, in accordo con gli elementi della nuova Direzione, ad una sorta di sterile routine, in cui il massimalismo parolaio fungesse, al pari del riformismo, da nuovo involucro alla politica di sempre. Il pericolo, paventato dalla sinistra, non tardò a divenire operante realtà. Mentre la destra non perse l'occasione di rialzare le proprie quotazioni sull'onda del successo elettorale (19):

Non si fugge alla sola definizione possibile della vittoria elettorale del Partito Socialista: è una rivoluzione! Legale, legalissima, pacifica, pacificissima, ma è sempre una rivoluzione.

Il massimalismo andò gradatamente sgonfiandosi fino a convergere nei fatti con le posizioni di destra.

Se fino a Bologna lo sforzo dei rivoluzionari fu quello di denunciare e isolare il riformismo, creando le condizioni di una definitiva rottura, da Bologna in poi lo stesso sforzo fu orientato contro il massimalismo.

Questo processo di decantazione politica fu enormemente accelerato dalle grandi lotte operaie che dagli ultimi mesi del 1919 a tutto il 1920 diedero il segno di quale grado di radicalizzazione si fosse impadronito delle masse.

Si iniziò con il grandioso sciopero nazionale dei metallurgici, durato dal 9 agosto al 27 settembre. Tra la fine di settembre e i primi di ottobre esplose in Emilia una rivolta contro il carovita. Sia a Modena che a Piacenza si combatté violentemente nelle piazze. Circa 70.000 salariati presero parte alla sommossa, lasciando sul terreno non pochi morti e feriti.

Gravi incidenti si verificarono in questo mese anche nel meridione, a Riesi in provincia di Caltanisetta e a Terranova, mentre al nord si registravano duri scontri con 5 morti a Besenzone (Piacenza), un morto a Lodi e diversi feriti a Milano. Sempre in ottobre incominciò a Torino, sotto la gestione del gruppo "Ordine Nuovo" il movimento dei Consigli di fabbrica che interessò quasi tutti i reparti della Fiat e qualche altra fabbrica di minore importanza.

Le elezioni del novembre servirono solo ad allentare momentaneamente la "morsa" delle agitazioni, che successivamente riprese più forte.

Il due e tre dicembre sulla indicazione unitaria di CGL e PSI (ora quasi unica in questi ultimi tempi) i lavoratori vennero chiamati allo sciopero generale per il "pestaggio" occorso ad alcuni parlamentari socialisti, da parte di esagitati "nazionalisti" all'uscita di Montecitorio.

In gennaio, oltre alle agitazioni dei tramvieri a Bologna e Verona, si iniziò su scala nazionale lo sciopero dei lavoratori telefonici che si concluse il giorno 20 dopo un'intera settimana di agitazioni estese al settore postale e telegrafico. Nel sud si andava organizzando quel grandioso episodio dell'occupazione delle terre che avrà non poche ripercussioni anche nelle regioni settentrionali come nel Novarese e in provincia di Vercelli, Pavia c Ferrara.

In febbraio si registrarono scioperi, agitazioni, scontri per la disoccupazione ed il carovita nel Trevigiano. Nel mese successivo si ebbe, per le stesse ragioni, uno sciopero generale a Parma.

L'elenco potrebbe continuare ancora per molto, ma è sufficiente chiudere con la facile osservazione che le condizioni obiettive in cui si muovevano le masse lavoratrici avevano trasformato l'Italia di questi mesi in una caldaia ribollente, pronta a scoppiare all'occasione più propizia.

Mancò in queste circostanze, come più tardi in settembre, in occasione della occupazione delle fabbriche, lo strumento coordinatore che facesse di questi innumerevoli episodi di lotta, il trampolino di lancio per lo scontro definitivo con la classe dominante, mancò il partito.

La maggior parte di quegli episodi, oltre ad essere tra loro slegati, furono improntati alla spontaneità più assoluta, costringendo COL e Direzione massimalista ad imbarazzanti rincorse. La tragedia non era solo questa.

Quando sindacati e partito erano costretti a promuovere o a inseguire gli episodi di lotta non travalicarono mai il contenuto economico della stessa, venendo meno ad uno dei principi fondamentali del leninismo, cioè la trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche che avessero come visione strategica non tanto il soddisfacimento delle istanze contingenti ma la conquista del potere che mai, come in quei momenti, l'oggettività della situazione di crisi e la determinazione nella volontà di lotta della classe operaia rendevano necessaria.

In questo senso la direzione massimalista del PSI non solo venne meno ai "suoi" compiti, ma rese politicamente acefalo il muoversi delle masse, riducendo le manifestazioni di spontanea rivolta a tragici episodi di generosa rabbia rivoluzionaria.

Di questa situazione fallimentare, che denunciava i macroscopici limiti del massimalismo imponendo come unica alternativa concreta la creazione di un nuovo partito, si rese interprete il "Soviet" con un chiarificante intervento (20):

Questi vani e continui conati della massa lavoratrice che si vanno quotidianamente esaurendo in piccoli .sforzi, debbono essere incanalati, fusi, organizzati, in un grande, unico, complessivo sforzo che miri direttamente a colpire al cuore la borghesia nemica.
Questa funzione può e deve essere esercitata solo da un partito comunista il quale non ha e non deve avere altro compito, in questa ora, che quello di rivolgere tutte le sue attività a rendere sempre più coscienti le masse lavoratrici della necessità di questa grande azione politica, che è la sola via maestra per la quale assai più direttamente giungeranno al possesso di quella fabbrica che invano, procedendo diversamente, si sforzeranno di conquistare.

È in questi termini che nella sinistra rivoluzionaria si fa strada la necessità di creare un nuovo partito che rompa definitivamente con il riformismo dichiarato di Turati e con quello inespresso di Serrati. Negli ultimissimi mesi, da febbraio a marzo, Serrati, e con lui una grossa fetta del massimalismo elezionista uscito da trionfatore a Bologna, ripiegò su posizioni unitarie proprio mentre più pressanti si facevano le condizioni per una scissione.

Così, mentre continuava una sterile campagna contro Turati ed il riformismo di destra, “bottegaio e conservatore”, irrecuperabile ad un'azione rivoluzionaria conseguente, passava dalle posizioni del 1919 in cui si intravedeva il partito come “nucleo di uomini forti e decisi, animati dalla stessa fede, moventesi sulle stesse direttive” a sostenere contraddicendosi nei termini (21), l'unità dei socialisti ad ogni costo, come condizione “sine qua non” della rivoluzione.

In questo ripensamento sta tutto il massimalismo serratiano. In effetti Serrati non pervenne mai, né in sede di elaborazione teorica, né alla luce delle esperienze politiche, alla necessità di una rottura nell'ambito del P.S.I. o peggio ancora alla necessità di creare un partito nuovo. Se per qualche anno (dal 17 al 20) si era spostato su posizioni più radicali, questo non voleva significare la spaccatura definitiva ma la riedizione del vecchio partito “non scisso” ma soltanto “più disciplinato, più compatto”. (22)

Da queste circostanze la frazione astensionista trasse le debite conseguenze: o organizzarsi o rischiare di rimanere impigliata in polemiche che comunque le si volessero condurre, rimanevano all'interno di una struttura partitica dalla quale non sarebbe uscito nulla di positivo.

Il primo importante passo verso la scissione fu la "conferenza di Firenze al 16-5-1920", di cui riportiamo i passi salienti.

Furono presenti alla conferenza oltre ai delegati delle sezioni c gruppi del P.S.I. aderenti alla frazione e al Comitato Centrale di questa, anche: Egidio Gennari per la Direzione del Partito; Capitta per la Federazione Giovanile Socialista; Francesco Misiano per la tendenza che al Convegno Socialista, tenutosi pochi giorni prima a Milano, si era affermato sull'o.d.g. da lui presentato in senso comunista non astensionista; Antonio Gramsci per coloro che in tale occasione votarono contro la fiducia alla Direzione del Partito. Fu letto un appello del segretario occidentale dell'Internazionale Comunista, che concludeva per la costituzione di un Partito Comunista capace, al di sopra delle divergenze su problemi minori come l'elezionismo, di guidare il proletariato italiano “alla conquista del potere ed alla instaurazione della Repubblica Italiana dei Soviet, come parte della Repubblica dei Soviet mondiale”. Era il primo passo verso la costituzione della Frazione Comunista, che avverrà in ottobre.

La Conferenza Nazionale della Frazione Comunista Astensionista del Partito Socialista Italiano, adunata a Firenze 1'8-9 maggio 1920... (23)

udita la relazione del Comitato Centrale e le comunicazioni dei rappresentanti della Direzione del Partito, delle frazioni affini e della Federazione Giovanile; in seguito al più largo dibattito sulla situazione politica italiana e sull'indirizzo del P.S.I. dichiara che il partito, per la sua attuale costituzione e funzione non è assolutamente in grado di porsi alla testa della Rivoluzione Proletaria e che le sue molteplici deficienze dipendono: dalla presenza in esso di una tendenza riformista che inevitabilmente, nella fase decisiva della lotta di classe, prenderà posizione controrivoluzionaria, e dalla conciliazione di un verbalismo programmatico comunista con la pratica opportunista del socialismo tradizionale nell'azione politica ed economica;
afferma altresì che l'adesione del P.S. alla III Internazionale non può essere ritenuta regolare appunto perché viene da esso tollerata la presenza di chi nega i principi della Internazionale Comunista, apertamente diffamandoli o, peggio, speculando demagogicamente su di essi a scopo di conquiste elettorali;
e ritenuto che il vero strumento della lotta rivoluzionaria del proletariato è il Partito Politico di classe, fondato sulla dottrina marxista e sulla esperienza Storica del processo rivoluzionario comunista in atto nel mondo contemporaneo e già vittorioso nella Russia dei Soviet;
delibera di consacrare tutte le proprie forze alla costituzione in Italia del Partito Comunista, sezione della 111 Internazionale, affermando che in questo Partito, come nel seno della Internazionale medesima, la frazione sosterrà la incompatibilità della partecipazione elettorale ad organismi rappresentativi borghesi coi principi e i metodi comunisti ed augurando che anche gli altri elementi del Partito attuale che sono strettamente comunistici si porranno sul terreno del nuovo partito e si convinceranno inoltre che la selezione non potrà seriamente farsi se non attraverso l'abbandono di quei metodi di azione politica che li accomunano oggi praticamente ai socialdemocratici;
dà mandato al Comitato Centrale:
1. di preparare - tenendo presente il programma presentato a Bologna dalla Frazione Comunista e l'indirizzo sostenuto dall'organo della Frazione nella discussione sui più importanti problemi attuali di metodo e di tattica comunistica - il programma del nuovo partito e i suoi statuti;
2. di intensificare i rapporti internazionali allo scopo di costituire la frazione antielezionista nel seno della Internazionale Comunista e di sostenere nel prossimo Congresso Internazionale le direttive della Frazione, chiedendo inoltre che vengano presi provvedimenti per risolvere l'anormale situazione del Partito Socialista Italiano;
3. di convocare immediatamente dopo tale congresso Internazionale il Congresso Costituente del Partito Comunista invitando ad aderirvi tutti i gruppi che sono sul terreno del programma comunista dentro e fuori dal P.S.I.;
4. di riassumere in efficaci e chiare tesi le posizioni di principio e di tattica della frazione diffondendole ampiamente in Italia ed all'estero.

Di ben altra importanza, ai fini della costruzione del partito rivoluzionario fu la polemica tra i bordighisti del "Soviet" e gli ordinovisti di Torino. Di questo abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, ma è bene ritornare sull'argomento che tanta parte ha avuto nello sforzo di puntualizzazioni dei principi rivoluzionari nell'ambito della "sinistra" italiana nel periodo immediatamente precedente Livorno.

Tralasciando la polemica interna all'Ordine nuovo, tra Tasca e Gramsci, interamente compresa in un contesto intellettualistico, andiamo al fondo del problema alla luce di quell'importante episodio di lotta della classe operaia torinese, ricordato come lo “sciopero delle lancette”.

L'episodio che tenne in agitazione, per la sua compattezza e determinazione tutta l'Italia oltre il Piemonte, fu al contempo la riprova dell'inettitudine della Direzione del P.S.I. e della FIOM che si trovò nella incomoda posizione di gestire contro-voglia le trattative, e il fallimento delle prospettive conciliari degli ordinovisti.

Sin dall'inizio dell'agitazione, il gruppo torinese si mosse su false prospettive. In un appello ai lavoratori in lotta del 16 aprile così si legge:

Lavoratori? Gli industriali, dopo aver tergiversato per 15 giorni si sono decisi a gettare la maschera e a porre in campo la questione delle C.I. Le Organizzazioni Operaie non potevano non raccogliere la sfida. La lotta ha raggiunto oggi la più vasta estensione e dovrà proseguire fino alla vittoria, perché la questione è ormai fondamentale per lo sviluppo del movimento operaio. Tutti i piccoli incidenti originari della vertenza sono superati, la battaglia è oggi su questo terreno, se nelle fabbriche e nei campi possa sorgere liberamente e svilupparsi il potere dei produttori, se i contadini, gli operai, gli impiegati, i tecnici, possano avere oggi, sui modi e sui fini della produzione, almeno tanto potere quanto ne ha il capitalista, che delle fabbriche e della terra conosce solo la rendita che dal lavoro altrui egli ricava. Noi affermiamo che la produzione oggi non può essere lasciata all'arbitrio dei capitalisti. L'esperimento della strage mondiale ha dimostrato quali conseguenze derivino dal loro strapotere. Le CI sono gli organismi in embrione del nuovo potere dei produttori. Gli industriali vogliono schiacciare le CI. I lavoratori le vogliono difendere, e soprattutto vogliono creare intorno ad esse un ambiente nel quale un loro ulteriore sviluppo sia possibile fino al giorno in cui nuove forme di convivenza sociale saranno stabilite...

Le posizioni ordinoviste sono ben riscontrabili nella idealistica funzione che andrebbero assumendo le CI come organismi in embrione del nuovo potere per diventare potere effettivo domani.

In un bollettino del 19 aprile si ribadisce più chiaramente il concetto in termini interclassisti, in cui si perviene alla conquista del "potere" attraverso la conquista della fabbrica con un processo di "partecipazione" che si creerebbe il proprio spazio vitale nel bel mezzo della struttura economica capitalistica:

Gli operai non vogliono l'istituzione del caos, ma vogliono nelle officine e nei campi un ordine nuovo fondato sul potere del produttore. Essi vogliono partecipare alla direzione della produzione: oggi possono anche accontentarsi di una partecipazione, domani potranno anche imporre che tutte e solo le categorie dei produttori abbiano in mano il potere economico.

(Non diversamente i riformisti presentavano la conquista dei... comuni come l'assunzione di una fetta di "potere" o come la "partecipazione" - solo partecipazione, per ora - ad esso!).

Bordiga, dalle pagine del "Soviet" indicò tempestivamente i gravi errori di metodo degli ordinovisti nell'affrontare la questione del potere, sottolineando come:

il controllo Operaio sulla produzione non è concepibile che quando il potere è passato nelle mani del proletariato... A Torino si è sopravvalutato eccessivamente il problema del controllo, intendendolo come una conquista diretta che il proletariato, con il nuovo tipo di organizzazione per azienda, può strappare alla classe industriale, anche prima della conquista politica del potere, di cui il partito è l'organo specifico...
(È) via errata porre la questione del potere nella fabbrica anziché la questione del potere politico centrale. Compito dei comunisti è utilizzare anche la tendenza proletaria alla conquista del controllo; dirigendola contro il bersaglio centrale, il potere di stato del capitalismo.
L'azione contro questo bersaglio non può essere che nazionale, generale...
Tutto ciò è mancato e doveva mancare, se manca il partito che segua i problemi della rivoluzione, se il partito socialista è impegolato nella pratica riformista, soffocato dalla menzogna dell'unità e dalle preoccupazioni elettorali.

La critica di Bordiga quindi, va ben oltre e nel superare le false prospettive consiliari, pone alla base del moto rivoluzionario, come condizione necessaria, la presenza operante del partito.

L'aver posto in termini pressanti la necessità del partito non sembrò determinare una svolta positiva negli angusti orizzonti politici degli ordinovisti. Anzi, stando all'articolo di Gramsci dell'8 maggio, a commento della sconfitta dei lavoratori torinesi, non è ancora possibile intravedere i primi segni di un processo di ripensamento.

La classe operaia torinese è stata sconfitta, e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta: essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perchè l'iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere di stato borghese... In Italia non esistono ancora le energie rivoluzionarie organizzate capaci di centralizzare un movimento vasto e profondo, capaci di dare sostanza politica ad un irresistibile e potente sommovimento della classe oppressa, capace di creare uno Stato e di imprimergli un dinamismo rivoluzionario.

A pochi mesi dal Il Congresso dell'Internazionale Comunista per i compagni dell'"Ordine Nuovo" il problema partito era ancora ben lontano dall'essere presente.

Il II Congresso dell'Internazionale Comunista

Il Congresso si svolse a Mosca dal 23 luglio al 7 agosto (1920) in un clima di speranza e di ottimismo. I massimi dirigenti dell'Internazionale credevano, non a torto, che fosse ancora possibile l'attuarsi della rivoluzione comunista europea, che sola avrebbe potuto risolvere i problemi di tutto il proletariato, ivi compreso quello russo.

I compiti del congresso erano quindi visti sotto questa prospettiva, dare cioè gli strumenti politici validi per un orientamento rivoluzionario a carattere internazionale:

Il secondo congresso dell'Internazionale comunista segnerà nelle forme più concrete le direttive per giungere alla dittatura del proletariato... Il secondo congresso indicherà in quale modo il proletariato dell'Europa occidentale potrà conquistare il potere. (24)

In questa prospettiva si svolsero i lavori alla presenza di folte delegazioni. Quella italiana, capeggiata da Serrati, Bombarci, Graziadei e Polano come rappresentante della Federazione Giovanile, includeva anche personaggi di chiara ispirazione riformista quali D' Aragona, Bianchi e Colombino come rappresentanti della CGL e come Dugoni e Nofri, rappresentanti della Lega nazionale delle cooperative. Bordiga vi partecipò come membro aggiunto senza avere voto deliberativo.

Il Congresso, oltre ad elaborare (21 punti) la linea di demarcazione tra rivoluzionari e riformisti di ogni risma ebbe, nei confronti della situazione italiana, il benefico risultato di chiarire la questione massimalista, non solo per quanto riguardava la figura di Serrati, ma di tutta la corrente.

Il problema si spostò quindi dalla semplice espulsione dei riformisti, alla natura del P.S.I. e del suo "corpo centrale" massimalista.

In ultima analisi l'Internazionale andava spostandosi sulle posizioni di Bordiga secondo le quali non esisteva più la possibilità di un recupero a sinistra del massimalismo unitario ma si imponeva la scissione definitiva. Questo spostamento fu però tanto lento da costringere Lenin al secondo errore di valutazione sulle "correnti" del P.S.I., orientandosi sul documento dell'Ordine Nuovo dell'8 maggio, redatto da Gramsci, come piattaforma base su cui si doveva muovere il partito; il primo errore fu quello di avere in precedenza puntato su Serrati ed il gruppo dei massimalisti. Va ricordato a riguardo che se questa fu "allora" la posizione dell'Internazionale, i fatti successivi la costrinsero a mutare atteggiamento fino a premere affinché la scissione fosse operata più a sinistra possibile.

Momenti del II Congresso dell'Internazionale Comunista
Momenti del II Congresso dell'Internazionale Comunista

Il "caso" PSI scoppiò in tutta la sua virulenza quando Lenin nel commentare il diciassettesimo punto, riguardo alla situazione italiana, cosi si espresse:

Per quanto riguarda il PSI il Congresso ritiene sostanzialmente giuste la critica al partito e le proposte pratiche pubblicate come proposte al consiglio nazionale del PSI, a nome della sezione torinese del partito stesso, nella rivista "Ordine Nuovo" dell'8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale. (25)

In sostanza nel documento che anni dopo lo stesso Bordiga ebbe a definire:

tanto poco gramsciano e ordinovista che condiziona ogni esperimento dei Soviet all'esistenza del partito di classe... E il frutto di una posizione intermedia, l'unica che la Sezione torinese potesse esprimere: quindi gracile e rapidamente moritura. Rappresenta il sintomo di un graduale ripensamento in seno al massimalismo, ancora però ben lontano dal tradursi in un allineamento sulle posizioni programmatiche dell'Internazionale. (26)

Si esprimeva il rimprovero alla direzione del PSI di essere assente sul piano politico, ed auspicava la eliminazione in seno al partito stesso dei "non comunisti".

Anche in questa fase di "ripensamento" come la definisce Bordiga veniva meno l'aspetto determinante, mancava la necessità del nuovo partito.

Ma la disputa più importante ai fini della futura costituzione del Partito Comunista d'Italia fu la replica di Serrati all'invito di espellere i riformisti. Il direttore dell'Avanti! si lanciò in una appassionata difesa dei riformisti italiani ritenendoli differenti dagli “altri riformisti” portando come termine di paragone il comportamento durante la guerra di "compagni" come Turati e quello assunto dal partito socialista francese e da suoi esponenti come Cachin che “hanno viaggiato tutta l'Europa per corrompere la classe operaia nel corso della guerra” e che ora si spacciano per bolscevichi conseguenti. Proseguì nel rivendicare al partito il diritto di mantenere il suo “nome glorioso” e se una “epurazione” era necessaria, questa non doveva avvenire nei termini di una espulsione giudicata troppo ingiuriosa per militanti come Turati che “ha sempre mantenuto le promesse e ha rispettato la disciplina di partito”.

Il ripiegamento di Serrati sulle posizioni riformiste che qui possiamo vedere solo "in nuce" ed espresse più in termini sentimentali che politici andò via via concretizzandosi dopo il congresso dell'Internazionale, in forma di adesione concreta che lo portarono, a Livorno, a formulare la drastica scelta di rimanere con i riformisti pur di non correre il "rischio" dell'avventura rivoluzionaria.

I tratti salienti delle discussioni della delegazione italiana, (replica di Serrati riguardo il 17o punto e le posizioni di Bordiga sul parlamentarismo) non andarono ad inficiare le condizioni di ammissione all'Internazionale comunista che uscirono "adottate" integralmente alla fine dei lavori il 30 Luglio 1920.

Verso il convegno di Imola

Le indicazioni programmatiche uscite dal II Congresso dell'I.C. posero alla Direzione del P.S.I. riunitasi dal 29 settembre al I ° ottobre, una serie di questioni importanti e prima fra tutte quella dell'"espulsione". In effetti l'atteggiamento dei comunisti e dei massimalisti nei confronti della "convivenza" con i riformisti sottintendeva ben altre valutazioni che non la mera espulsione, anche se attorno a questa si concretizzò lo scontro.

Uscì vittoriosa la mozione Terracini, dove oltre alla scontata adesione alle "condizioni" dell'Internazionale si insisteva sulla necessità di una “radicale epurazione dal partito” da discutersi al congresso nazionale di Livorno, su quella Baratono, più morigerata, in cui si tentava di conciliare i "21 punti" con la politica espressa dal partito in questi ultimi anni, mentre riduceva il problema "epurazione" a quei casi isolati di indisciplina c di inosservanza alle delibere dell'Internazionale. Con un voto di 7 a 5, la maggioranza si espresse per l'o.d.g. Terracini sollevando le ire di Serrati che rispose emotivamente al “gioco della conta” con le dimissioni dalla direzione dell'Avanti!, dimissioni che furono respinte subito all'unanimità. Commentando più avanti la frattura che si era espressa nell'ambito della Direzione, Serrati intuì che era “virtualmente iniziata la scissione nella nostra compagine socialista” (27) senza per questo rinunciare al suo scopo unitario di "temperare" la rigidità delle fazioni opposte.

Bordiga rispose duramente dalle pagine del "Soviet" (28) denunciando i pericoli di una posizione di equilibrismi che, improntata ad un inutile quanto sterile amor di partito, finiva per nascondere le reali “obiezioni generali di principio”.

Nell'atteggiamento intransigente di Bordiga, come di molti elementi della sinistra rivoluzionaria, pesava l'impressione di inefficienza che partito e sindacati avevano dimostrato nel mese precedente in occasione del grandioso episodio dell'occupazione delle fabbriche. Anche in questo caso, e molto più gravemente che in altri, l'essenza non rivoluzionaria delle dirigenze socialista e sindacale si manifestò in tutta la sua drammaticità. Era quindi naturale oltre che politicamente necessario combattere ogni tentativo di soluzione mediata che avrebbe prodotto il solo risultato di privare ancora per molto il proletariato del suo organo fondamentale, ovvero del partito rivoluzionario.

Mentre si combattevano ancora queste ultime schermaglie sulla espulsione-non espulsione nella interpretazione restrittiva di Serrati, partito vecchio-partito nuovo nella prospettiva bordighista, l'"Ordine Nuovo" (19) rimaneva ancorato sulle posizioni consiliari.

1. I Consigli di fabbrica si sono dimostrati l'istituzione rivoluzionaria storicamente più vitale e necessaria della classe operaia italiana. Le maestranze, lasciate senza guida e senza una precisa parola d'ordine dal Partito Socialista e dai Sindacati, hanno trovato nel Consiglio il loro organo di Governo, si sono strette fortemente e audacemente intorno al Consiglio, hanno vinto perché il Consiglio le ha disciplinate le ha armate, ha fatto di ogni fabbrica una repubblica proletaria.
2. Si è dimostrata la necessità di impostare e risolvere la questione del controllo operaio .sull'industria, come fase del processo rivoluzionario in cui il proletariato crea un suo apparecchio di gestione economica e dimostra alle grandi masse della popolazione di essere il solo capace di risolvere i problemi posti dalla guerra imperialista.
3. La nostra critica al Partito e ai Sindacati, l'uno e gli altri paralizzati dal verbalismo demagogico e dalla sclerosi burocratica, ancora una volta, purtroppo, ha avuto conferma dagli avvenimenti. Il lavoro di propaganda e di organizzazione, che ha nell'Ordine Nuovo il suo centro, deve essere continuato con maggior tenacia e intensità: esso è oggi enormemente facilitato dalla disciplina imposta al Partito dall'Internazionale Comunista e dallo slancio impresso alla classe operaia dall'esperienza dell'occupazione delle fabbriche.

Gramsci, autore dell'articolo, non si discosta ancora dal “suo” processo idealistico-evolutivo della “conquista della fabbrica” e del “controllo operaio sull'industria” senza porre la questione prioritaria da un punto di vista rivoluzionario che non può essere che la conquista del potere politico. Al partito rinfacciava le accuse di sempre “verbalismo demagogico” e di “sclerosi burocratica” con la possibilità però di un suo recupero “facilitato” dalla disciplina impostagli dalla Internazionale Comunista.

Ma l'errore più grave fu quello di non aver imparato la lezione di settembre dell'occupazione delle fabbriche che aveva avuto come unico contenuto rilevante non le arcinote carenze del P.S.I., ma le mancanze del partito rivoluzionario.

La lezione rimase inascoltata perché Gramsci non aveva ancora interamente percorso quel faticoso cammino di avvicinamento al marxismo che gli avrebbe dato gli strumenti per una analisi di classe dei problemi senza essere attardato dal pesante fardello di una impostazione culturale di tipo idealistico. In effetti Gramsci non compi mai interamente il cammino e le poche tappe raggiunte lo porteranno solo ad un accostamento formale, ma per niente maturato, alle tesi di Bordiga nell'imminenza del Convegno di Imola.

Il primo passo di questo processo di “accostamento” si ebbe, abbastanza improvvisamente, a soli pochi giorni di distanza (30) dalla pubblicazione dell'articolo sui Consigli.

Il fatto in sé potrebbe lasciare perplessi ma, nell'analizzare il nuovo indirizzo gramsciano che abbandona i Consigli come “prefigurazione della società socialista” per vedere nel Partito “la sola anticipazione della futura società”, emerge ancora . una volta l'anima idealistica, che fa della rivoluzione, sotto la guida (questa volta) del Partito, un fenomeno di cui è impossibile...

immaginare e prevedere le conseguenze immediate nel campo della distruzione e della creazione storica delle sterminate moltitudini che oggi non hanno volontà e potere... ma appunto per questa necessità della rivoluzione - continua Gramsci - per questo suo carattere di imprevedibilità e di sconfinata libertà, chi può arrischiare ancora una sola ipotesi definitiva sui sentimenti, sulle passioni, sulle iniziative, sulle virtù che si forgeranno in una tale fucina incandescente?

In sostanza la preoccupazione gramsciana non è quella di risolvere fino in fondo il problema Consigli-Partito, ma sembra quella, certamente molto speculativa ma poco politica di decifrare quello che sarà il processo delle “virtù e delle passioni” dell'uomo nello svolgersi della rivoluzione. (31)

Mentre Gramsci inizia il suo travagliato processo di avvicinamento, Togliatti permaneva nell'ottica consiliare, anzi riteneva importantissimo e vitale il problema della “espansione” dei Consigli (32), condizione prima dell'assalto rivoluzionario.

Solo ad Imola i componenti dell'Ordine Nuovo deposero definitivamente le remore consiliariste per allinearsi alle posizioni partitiche di Bordiga.

I riformisti fanno pretattica

Nell'ottobre del 1920, in prospettiva del Congresso di Firenze (33) che avrebbe dovuto sancire definitivamente l'esito di due anni di polemiche, le forze in “campo” si preparano al cimento nei rispettivi “ritiri” come vere e proprie frazioni all'interno di una struttura politicamente disarticolata che solo con molta disinvoltura poteva ancora chiamarsi partito.

I primi a riunirsi furono i riformisti (Convegno di Reggio Emilia 10-11 ottobre). La maggiore preoccupazione dell'ala destra del partito era quella di uscire dall'isolamento forzatamente patito negli ultimi mesi, al prezzo di cedere sul piano ideologico e sfruttando la grossa occasione che i massimalisti di Serrati avevano loro fornita su di un piatto d'argento durante e dopo il secondo congresso dell'Internazionale.

Cogliendo la palla al balzo a proposito della dichiarazione di Serrati sulla “autonomia del partito nelle sue più intime decisioni”, i turatiani tentarono l'agganciamento ai massimalisti fornendo in contropartita un programma riveduto e corretto, di cui, accanto alle tradizionali posizioni evoluzionistiche si lasciava lo spazio, molto ristretto, a soluzioni "rivoluzionarie" la cui estemporaneità risultava evidente anche al più sprovveduto degli osservatori politici.

La frazione di “concentrazione socialista”, cosi si presentarono i riformisti al loro convegno, nei suoi atti deliberativi si dichiarò:

risolutamente unitaria e avversa ad ogni scissione, tanto peggiore se provocata da ostracismi personali.

Il richiamo all'unità e il rifiuto della scissione sono ovvii, anche perchè oggetto eventuale di una espulsione erano loro e non altri. Di seguito, passando ai temi della politica internazionale, la frazione di concentrazione “conferma l'adesione del partito alla Terza Internazionale” e definisce che:

la dittatura del proletariato, intesa nel senso marxista, è una necessità transitoria, imposta da speciali situazioni e non come un obbligo programmatico, non viene negata dalla frazione di concentrazione, ma tale dittatura non deve, non può essere modellata per tutti i paesi su quella di uno solo; e sarebbe un grave errore il voler prescrivere a popoli democraticamente sviluppati e insofferenti di autoritarismo, leggi e sistemi ritenuti utili e necessari per altre nazioni. (34)

Turati e compagni non potevano fare altro che giocare le loro carte il più astutamente possibile. Lo scopo di queste dichiarazioni tattiche per eccellenza non avevano evidentemente lo scopo di salvare il partito dalla scissione, che ormai era palese a tutti, ma di recuperare su di un terreno unitario il “centro” massimalista, lasciando che ì rivoluzionari scegliessero la loro strada. Nei fatti le cose andarono in questo modo e non tanto per l'astuzia tattica di Turati quanto perchè su questo terreno si muovevano anche i massimalisti di Serrati. Eventualmente Turati ebbe i riflessi pronti per saltare sul treno che già era partito in senso contrario alla rivoluzione. A dieci giorni di distanza, a Firenze si riunirono i massimalisti “comunisti unitari” per l'occasione con la giusta convinzione di essere il “segmento più lungo” e quella errata di ritenersi il solo punto di riferimento valido. Se questo poteva essere valido per i riformisti, solo parzialmente lo fu per i “comunisti rivoluzionari”. Serrati, con Alessandri in seconda battuta, affrontò di petto i famigerati 21 punti, sottoponendoli a dura critica che potrebbe ben definirsi come un rifiuto inespresso. Il nucleo centrale della critica fu fornito dall'"autonomia". Bacci, presidente del Convegno e tenace oppositore dei 21 punti si espresse chiaramente a questo riguardo:

non è mai successo che l'Internazionale debba indicare ai partiti nominativamente coloro che devono essere espulsi.

Nonostante tutto il punto dolente rimaneva la scissione. Serrati, in questo senso, più preoccupato che analitico, si espresse confusamente:

lo mi sento portato verso il comunismo ultra più che verso il riformismo, ma se domani il partito dovesse spezzarsi, io non saprei che cosa fare.

Nella conclusione, dovendo in qualche modo assumere una posizione su tutti i punti che il convegno aveva trattato, Serrati tenta una sintesi che ancora una volta lascia le cose come stavano.

Nella mozione approvata i comunisti unitari dichiarano:

... che il Partito Socialista Italiano in forza delle sue Organizzazioni politiche ed economiche non è soltanto il più robusto e il più compatto dei partiti politici in Italia, ma ha anche conquistato un potere politico effettivo che risiede nei molteplici rami della sua perenne attività, esso è pertanto il solo che possa assicurare al proletariato così l'abbattimento del regime borghese come la ricostruzione e l'ordinamento comunista;
... che intendono che i 21 punti siano interpretati ed applicati secondo le condizioni ambientali e storiche del nostro paese, come del resto il CE di Mosca ammette ed usò poi di fatto con altri paesi, previo accordo con esso CE; ... che i concetti di patria e di ogni fine nazionale sono ormai superati dal concetto e dal fine dell'Internazionale dal quale non si può tornare indietro senza pregiudizio della lotta di classe del proletariato; ... che i rapporti fra gli organizzatori della III Internazionale debbono essere aperti e franchi attraverso gli organismi rispettivi e senza diplomazia segreta; ... che ogni mezzo di conquista è adottabile nei limiti della più assoluta intransigenza di classe e sempre al fine rivoluzionario comunista per il quale il Partito ha bisogno di integrare la sua azione politica con quella economica delle Organizzazioni sindacali, e propongono:
4. che il Partito Socialista Italiano venga rinforzato con un maggiore accentramento in modo che ogni singolo membro od organo subordini la propria attività all'interesse generale o al risultato integrale e ciò anche per quanto si riferisce al controllo sull'attività espletata nel campo intellettuale e della propaganda;
5. di fronte alle Organizzazioni resistendo agli organismi economici col pensiero e la pratica della ragione politica si assicurino la preminenza su tutte le ragioni contingenti e sindacali con perfetta subordinazione al Partito politico degli organismi centrali del movimento economico e sindacale.
6. si adopera alla preparazione legale e illegale dei mezzi rivoluzionari sia per l'avviamento degli strumenti della conquista proletaria sia per fondare gli organi di sostituzione. (35)

I rivoluzionari si riunirono a Imola (28-29 Novembre) con una partecipazione che mostrò di essere meno coesa del previsto. Graziadei e Marabini avanzarono la proposta di unire in “un solo fascio” massimalisti di sinistra e comunisti, riproponendo in veste ridotta la concezione unitaria di Serrati. Anche Sal adori si pronunciò per un accostamento ai serratiani, verso i quali “non vi è che un sospetto” ma nessun concreto “fatto”. Solo Bordiga arrivò ad Imola con le idee già chiare:

Il Convegno di Imola non è un convegno in cui occorra esporre teorie o fare polemiche, in esso non ci sono avversari ma solamente uomini già aderenti ad un'unica teoria accettata, riuniti per un lavoro di propaganda e di organizzazione, tanto più che il convegno indetto si presenta sin dal primo giorno come un successo politico e morale... La Terza Internazionale comunista rappresenta la negazione non solo del socialpatriottismo ma anche della socialdemocrazia. Contro queste due categorie di traditori si svolge oggi la nostra azione: fra essi e noi non è più possibile alcuna comunione di idee e di lavoro. I comunisti unitari tentano di colmare l'abisso con una nuova formula, ma è ben certo che essi, dopo l'approvazione di un programma comune, non potranno più unire per un'azione rivoluzionaria noi qui convenuti con coloro che convennero a Reggio Emilia, per studiare l'ultima formula di salvataggio della borghesia, con quella frazione di destra che tende a spezzare tutto il sistema rivoluzionario del proletariato italiano... Il taglio netto che i comunisti invocano sarà per gli italiani un grande passo storico .sulla via del progresso internazionale proletario e non sarà affatto un indebolimento del movimento proletario rivoluzionario italiano. (36)

Gramsci sorprende per la seconda volta con un intervento sulla necessità di:

costruire un partito con (un) proprio programma, con (un) proprio indirizzo, con una saldatura propria con le grandi masse popolari.

In apparenza, quindi, tutti sentivano la necessità della rottura ma con diverse intonazioni e il manifesto che usci dai lavori del convegno dovette tenerle in considerazione.

Il Congresso di Livorno - 21 gennaio 1921
Il Congresso di Livorno - 21 gennaio 1921

Il mese successivo Bordiga, ritornando sul “compromesso ad interim” di Imola chiarì definitivamente quale dovesse essere l'atteggiamento della frazione comunista al prossimo Convegno Nazionale di Livorno. I comunisti non avrebbero dovuto accettare né la proposta “passerella” alla Graziadei, né “l'espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito”; e qualora ciò si verificasse bisognava rispondere con una “immediata uscita dal partito e dal Congresso appena il voto ci avrò posti in minoranza”, senza tentennamenti ma “come un uomo solo”.

Il 21 gennaio a Livorno accadde il previsto e nacque il Partito Comunista d'Italia, Sezione della III Internazionale.

Fabio Damen

(1) Tratto dall'Avanti! del 24 marzo 1917.

(2) CORTESI: Le origini del P.C.I.

(3) Quale direttore dell'Avanti! presumibilmente è di Serrati il fondo del 19 marzo “Bandiera rossa”.

(4) Avanti!, 20 dicembre 1917.

(5) Lettera pubblicata sull'Avanti! del 25 dicembre 1917.

(6) Da l'Avanguardia N. 493 del 3 giugno 1917.

(7) Lenin, Martov e noi, gennaio del 1918.

(8) Da La grande contraddizione.

(9) L'ora del vero riformismo, dicembre 1917.

(10) Posizioni di Turati espresse nel convegno del 7-11 dicembre pubblicate organicamente dall'Avanti! il 17 gennaio 1919.

(11) Il Soviet, 22/12/1918.

(12) CORTESI, Le origini del P.C.I.

(13) L'Ordine Nuovo - Articolo del 21 giugno 1919.

(14) Il Soviet - Articolo del 4 gennaio 1920.

(15) Il Soviet - Articolo del 15 giugno 1919.

(16) IlSoviet del 13 luglio.

(17) Engels, Il socialismo dall'utopia alla scienza.

(18) Il Soviet, 30/3/1919.

(19) Critica sociale, 16-30 novembre 1919.

(20) “Prendere la fabbrica o perdere il potere”. Il Soviet, 22 febbraio 1920.

(21) Avanti! Editoriale del febbraio 1920. “Unione o scissione?”.

(22) Cammino, 31 marzo - 15 aprile. “Pettegolezzi unitari”.

(23) Da Il Soviet del 16/5/1920.

(24) Intervento di Radek riprodotto da L'Ordine Nuovo, 17 luglio 1920.

(25) Dal resoconto dei lavori.

(26) Da Storia della Sinistra Comunista, pag. 327 - Ed. Il Programma Comunista.

(27) “La portata del dissenso”. Avanti! 3 ottobre.

(28) “Da Mosca a Firenze”. Il Soviet, 17 ottobre.

(29) “L'Ordine Nuovo” del 2 ottobre, tratto da La formazione del P.C. d'Italia, Lepre-Levrero.

(30) L'Ordine Nuovo, 9 ottobre 1920, apparso nell'Avanti! il 10 ottobre.

(31) Idem.

(32) Togliatti, Opere, vol. I, pag. 192.

(33) Il congresso si tenne invece a Livorno.

(34) “La mozione concordata”, Avanti!, 13 ottobre 1920.

(35) Tratto da La formazione del P.C. d'Italia, Lepre-Levrero.

(36) Tratto da La formazione del P.C. d'Italia, Lepre-Levrero.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.